Il Figlio

Una massa aggrovigliata di speranze. Caterina e tutto il suo crescere, senza riserve 

Livia Chiriatti

Rina Edizioni riporta alla luce Caterina Saviane, giovane ed enigmatica scrittrice, con la ristampa del suo romanzo-diario "Ore Perse". Morta a trentun anni per overdose nel 1991, l'autrice torna ad arricchire la letteratura femminile

Se si cerca su Google Caterina Saviane non si trova molto. Una foto di lei giovanissima con i capelli corti e scompigliati. Un intervento a Radio Radicale in cui difende con voce concitata la Lista antiproibizionista. Un commento del padre Sergio Saviane, giornalista fondatore del giornale satirico Il Male, sulla morte della figlia a trentun anni per overdose, nel 1991: “Dormivo vestito, di notte andavo per caserme e me la riportavo a casa, fumava 120 sigarette al giorno, e se non erano sigarette era qualcosa di peggio. Il buco finale a Milano, in casa di un’amica”. Un’intervista su Vogue in cui è descritta come un “Gianburrasca aggiornato”, pantaloni sdruciti e maglione infeltrito. Infine, resta traccia di tutte le sue parole: le poesie raccolte in appénna ammattìta (nottetempo, 2015), ma soprattutto Ore perse. Scrivere a sedici anni, il romanzo pubblicato nel 1978 quando di anni ne aveva diciotto per Feltrinelli Franchi Narratori. Praticamente irreperibile, oggi è ripubblicato da Rina edizioni, la casa editrice che si è presa la briga di riportare alla luce scrittrici dimenticate ed estromesse dal canone. 

Ore perse è il romanzo-diario dei sedici anni di Caterina e dentro c’è tutto il suo crescere, senza riserve. E’ la cronaca e il tentativo di afferrare i suoi pensieri, dialoghi e ricordi, espressi con una lingua così precisa e lucida da bucare il confine della sua esperienza personale e aprire una finestra sull’universale. Il suo acume sgomenta, le sue battute spiazzano: “E’ strano come l’umanità sia sempre disponibile a darti pedate nel culo: e anche io sono l’umanità”. Ti strappa una risata mentre si spalanca l’abisso della sua noia, del suo male di vivere a sedici anni. “Dove sta scritto che la vita è sacra? Sacra è allora anche la morte, sacro il tempo, l’amore, la solitudine, sacre sono anche le vacche in India”. Sicuramente è sacro il tempo dell’adolescenza, quando ogni sentimento è vissuto in modo esagerato e la solitudine è sconfinata. Quando le ore colano, scivolano via vuote, sperperate, perse a cincischiare con la comitiva dei suoi coetanei “strimpellatori”, “la sigaretta in bocca e gli occhi in posa, per far vedere che si soffre la gioventù”, verso cui Caterina non ha pietà, soprattutto dei suoi amici maschi: “E’ inutile vincere il referendum sul divorzio, quando poi si perde nella vita, è inutile essere favorevoli all’aborto se in casa non si lavano i piatti […]. Lavate i piatti, coglioni di rivoluzionari”.

Nonostante il male di vivere e la frequentazione quotidiana col pensiero della morte, almeno per il momento vince un disperato amore per la vita, che rende Caterina “una massa aggrovigliata di speranze”, riposte soprattutto nel padre e nella scrittura. Con lui, più “compagno” che genitore (“In fondo sei bravo. Sarai un padre snaturato, ma almeno mi capisci”), trascorre molto tempo, insieme seguono un regime alimentare disordinato a base di pane, latte, vino e sigarette, e si accordano in concerto fin dal mattino con il ticchettare delle rispettive macchine da scrivere. Un lessico famigliare condiviso che ha il tempo teso della satira – “Per chi scrivi, padre mio, che tutti ti odiano e parlano male di te?” –, il colore dell’invettiva, l’allegria del vino, il ritmo scandito dalla scrittura, con cui Caterina ha un rapporto fisico. Scrive fino all’esaurimento, ostinata, aggrappata alla sua macchina da scrivere “dal battito cardiaco stonato” che si trascina persino in vacanza in una pesante valigia. Si rivolge a lei, le fa domande, si strugge perché non riceve mai risposta. Eppure di risposte a noi ne ha lasciate, questa scrittrice di sedici anni che vedeva le cose in modo chiarissimo. E che bello averle ritrovate

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