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Il figlio

Piccoli Mondi. L'equilibrio del nostro tempo, dopo l'esordio di “Mare aperto”

Giacomo Giossi

Il secondo romanzo di Caleb Azumah Nelson conferma la maestria nel maneggiare musica, immagine e memoria. Un lavoro frutto di un viaggio di ritorno in Ghana in cui l'autore tenta di dare senso alla propria origine

Se la scrittura può essere definita una misurata sintesi tra musica, immagine e memoria, Caleb Azumah Nelson, dopo il folgorante esordio con Mare aperto (Atlantide, 2021), si conferma ora con il suo secondo romanzo, Piccoli mondi (Atlantide) – sempre nella traduzione di Anna Mioni –, come uno dei suoi migliori interpreti. Piccoli mondi può infatti essere letto come la parte seconda di un movimento che aveva già rivelato ai lettori la qualità ritmica e visionaria dell’autore britannico di origini ghanesi. Azumah Nelson è in grado di maneggiare con maestria tre elementi evidentemente inscindibili nella sua poetica. La memoria famigliare intrecciata a una tensione musicale capace di trasformare il romanzo in una colonna sonora. E il tutto attraversato dalla capacità di trasformare ogni pagina in un’immagine vivida, cosa sempre più rara. 

Stephen, protagonista di Piccoli mondi, è figlio di più mondi, il Ghana dove hanno origine la sua famiglia e la Gran Bretagna - la zona sud est di Londra -, dove vive e cresce. Frutto di un viaggio di ritorno in Ghana di Azumah Nelson, Piccoli mondi è il racconto del tentativo di un adolescente di dare forma e senso alla propria origine individuando una casa vera, un riparo dentro al quale crescere. L’identità è un movimento (ritorna centrale la musica: Stephen suona la tromba e sogna di diventare un jazzista), un’alternanza tra vicino e lontano. Una messa a fuoco faticosa e spesso anche dolorosa. Un viaggio di ritorno continuo che non ha mai fine se non nella sua capacità di accogliere pezzi di futuro. Caleb Azumah Nelson sa sciogliere in una narrazione in realtà molto semplice e diretta la complessità del mondo senza elidere alcun elemento, senza dimenticare alcuna contraddizione. 

Uno sguardo preciso, capace di mettere a fuoco elementi anche minimi per offrire al lettore un panorama dell’esistenza assolutamente coinvolgente. E non deve essere un caso che la letteratura di Azumah Nelson ricordi, pur con grandi differenze, quella di Teju Cole, altro scrittore fotografo, altro uomo la cui esistenza attraversa due continenti. Europa e Africa, America e Africa, Caleb Azumah Nelson e Teju Cole, due generazioni diverse, due sguardi distinti, eppure entrambi in grado di mostrare l’interconnessione tra luoghi solo apparentemente distanti. La capacità di contenere mondi riguarda infatti fino a un certo punto la geografia. E lo dimostra bene il giovane Stephen, oltraggiato da un paese, la Gran Bretagna che confonde l’ipocrisia con l’integrazione dando corpo ad un razzismo mellifluo e violento. Figlio di due paesi e di due genitori ormai lontani dalla sua sensibilità: “Mia madre chiede a tutti di stringersi per farci entrare in una fotografia. Mi domando cosa vede in questo momento, cosa vuole consegnare alla celluloide, cosa potrebbe voler conservare per sempre. So che ho diciotto anni, la stessa età in cui lei è arrivata a Londra. Mi domando, allora, se questa è la nostalgia di un periodo che i miei genitori non hanno mai sperimentato, hanno saltato quel momento tra l’infanzia e l’età adulta, la responsabilità li ha allontanati dalla spensieratezza.” Circondato da questa ostilità e da questa differenza che contiene una violenza pronta ad esplodere da un momento all’altro, Stephen impara a contenere e a trasformare, a sentire e a ricordare. 

L’origine non è da inseguire nel passato, ma da ricercare nel presente, come una possibilità di futuro. Stephen ricorda un Holden più dolente, ma anche un Martin Eden deciso a non farsi ingabbiare, perché non è nell’accettazione altrui che cerca salvezza, ma nella sua stessa liberazione. Piccoli mondi racconta il delicato equilibrio del nostro tempo, trasformandolo nella sua forza.

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