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Il figlio

Resta con me, sorella, per ricostruire la nostra libertà. Storia di prigioni

Gaia Manzini

Il nuovo romanzo di Emanuela Canepa racconta la reclusione dentro e fuori dal carcere delle donne che hanno sempre avuto poco spazio, nella società e nella possibilità di realizzare i propri sogni

La poetessa americana Sylvia Plath scriveva che l’essere nata donna era la sua terribile tragedia. Avrebbe voluto mescolarsi con i ragazzi di strada, muoversi liberamente nella città, far parte della scena, ma tutto era guastato dal fatto di essere una donna, o meglio, una femmina che rischiava in ogni momento di essere giudicata, aggredita, violentata. Voleva poter passeggiare di notte. I want to be free, scriveva nel suo diario. 

 

La femminista americana Rebecca Solnit si chiede in che misura il suicidio di Sylvia Plath – a trent’anni, nella sua cucina – sia stato provocato dalla reclusione delle donne negli spazi e nei modelli della vita domestica. Reclusione: le donne che hanno sempre avuto poco spazio, nella società e nella possibilità di realizzare i propri sogni. Il nuovo romanzo di Emanuela Canepa: Resta con me, sorella (edito da Einaudi) è la rappresentazione della geografia simbolica del femminile. Ricrea un ambiente che determina la prossemica dei suoi personaggi, e il loro muoversi sulla scena racconta millenni di subordinazione.

 

Anita è una ragazza negli anni Venti del Novecento, è orfana e lavora nella redazione dove il padre prima di lei prestava servizio. In redazione gli uomini parlano ad alta voce, attraversano la stanza a grandi passi, mentre le donne sembrano quasi prive di moto e di parole. Quando il fratellastro di Anita ruba dalla cassa e lei decide di addossarsene la colpa, perché senza lo stipendio di lui il resto della famiglia sarebbe condannato alla miseria, tutto precipita. La prima parte del libro si svolge nel carcere della Giudecca, isola dell’isola - come isolate nel senso di ristrette e circoscritte sono state sempre le donne. Le detenute stanno curve sui panni che devono lavare, hanno corpi che cercano di occupare meno spazio possibile. Tutte tranne una: alta, con una treccia bionda, che cammina nel cortile con passo ritmico e deciso, e ogni tanto guarda verso il cielo. E’ Noemi che le sarà amica, l’unica: con il solo muoversi racconta che si può desiderare di andare oltre il perimetro costruito intorno a loro. 
Anita trova il modo di esercitare una professione contabile in carcere, si conquista la fiducia delle suore che le sorvegliano: una volta uscita di prigione, c’è già qualcuno che le apre la casa. Nella sua espressione più brutalmente convenzionale, la femminilità è un continuo scomparire, una riduzione al silenzio per aprire più spazio agli uomini, dice Rebecca Solnit. Uscire dal carcere non è vera libertà, è sempre trovare nuovi confini. 

 

Clelia Berlendis l’accoglie, la mette a servizio, ma Anita ancora non è libera di scegliere. Tra le calli di Venezia si muove con passo incerto, inibita dalla stessa luce del sole, esita persino a sedersi ai tavolini di un locale all’aperto. Per Anita si desidera, più di un impiego, un matrimonio che la faccia rientrare in società. E invece lei ha un sogno che ha condiviso con Noemi in carcere: aprire una sartoria, dividersi i compiti tra la sua abilità contabile e quella di ricamatrice straordinaria dell’altra. Perché per una donna la finestra verso nuovi spazi può essere la condivisone di un progetto con una sorella d’elezione. Il progetto proietta l’amicizia fuori dalla dinamica, si propone di diventare frutto della loro creatività, esercizio dei loro talenti. Esercizio di libertà. E’ così che riesce a vivere, Anita: inseguendo il miraggio di un’amica. Rimane impressa l’immagine di lei e Noemi, ormai uscita di prigione, tra un allevamento di bachi da seta, animali che costruiscono intorno a loro stessi un bozzolo, animali che accettano l’immobilità, la prigione, ma si liberano regalando bellezza a mondo: quel filo di seta preziosissimo. E’ così che Canepa intesse, dentro gli spazi ristretti delle donne, una luminosa promessa. 

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