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Il figlio

Un romanzo di formazione sull'orlo di una catastrofe

Michele Neri

Nel Duca di Melchiorre, il sangue è elemento centrale: prima vincolo, poi liberazione dai vincoli. La maturazione di chi si svincola dal fatalismo delle scelte di vita

"L’aria è più potente del sangue. L’aria è signora di ogni cosa”. Quasi alla fine di questo avvincente e ingegnosissimo esordio di Matteo Melchiorre, Il Duca (Einaudi), emerge la morale promettente del libro. Il sangue, quel sotterraneo rosso, un concentrato di storia che si tramanda; che va alla testa, che giustificherebbe soprusi, passioni e immobilismo caratteriale, cui ci si rivolge come a una disgrazia o a un privilegio, non è nulla se a opporsi è la natura con i propri non negoziabili eventi. Da ogni passata condanna ci si può liberare, è questione di conoscerla, non di viverla come ineluttabile: basta accogliere il soffio del presente, che giunge a demolire secolari fedeltà alla famiglia, al rango, a un destino scritto su carte o addirittura, nel caso della nobiltà, su pergamena. 

 

A offrire quest’opportunità di fuga e rinascita, è un romanzo cupo come si deve alla natura del thriller e improvvisamente lacerato da sprazzi di luce. E’ il cielo che scruta da anni l’ultimo erede di una dinastia di montagna, il “Duca” anche se è soltanto il giovane conte e capolinea della casata dei Cimamonte, il neghittoso eremita chiuso nella villa di famiglia che domina il paese di Vallorgàna, avamposto sperduto di un’immaginaria Val Fonda. 
Non è la caratterizzazione dell’ambiente la forza del romanzo, anche se sazia la fame di montagna che pervade la nostra narrativa, e lo fa generosamente: neve, camini, il taglio del bosco, lupi e pecore dilaniate, bettole, ubriachi, maledizioni secolari e la sciagura della tempesta più violenta di sempre. 

 

Ad afferrare il lettore è l’improvviso colpo d’aria, il sommovimento leggero e complesso che costringe il Duca ad affrontare ciò che la sua posizione, su cui pesano impalpabili trame passate, impone. Quando il Duca, da osservatore, diventa quel mondo e fa entrare Vallorgàna in sé. E, come gli eroi verosimili, non ha più posizioni certe da difendere. A entrare nella circolazione del sangue sovvertendola, sarà uno scontro duro e insensato come quello che avvita nel declino gli ussari D’Hubert e Feraud dei Duellanti di Conrad. Ci vuole un antagonista all’altezza e Melchiorre ne configura uno perfetto: quel Mario Fastréda, vecchio, temuto capobastone che rappresenta l’altra faccia del potere, chi ha sempre lavorato più o meno onestamente per ottenere un primato nel paese; non come il Duca, che arriva “dritto dalle lenzuola di cotone”.

 

Il duello sarà accanito: espropri, incendi, vendette, prepotenze, ma la ragione dell’odio non è ciò che appare. Come nei romanzi che non impongono una storia, sarà la storia stessa a scegliere una spiegazione. In una frizione costante alla Master di Ballantrae di Stevenson, s’inserisce un amore segreto: Maria, creatura “incantesimata dalla luna, dagli astri, dalle brezze, dalle foglie”, e che costringe il Duca a scegliere una consapevolezza da costruire dal basso contro la presunzione di conoscere. Maturare è comprendere di quale cultura si è figli e farne qualcosa di proprio. 
In questo senso Il Duca è un perfetto romanzo di formazione in tempi sull’orlo della catastrofe o di un cambiamento, quando il passato è usato per sopraffare più che per apprendere e il sangue è spremuto a favore di un mondo dal quale i più sono esclusi; mentre l’impeto di esproprio nei confronti della natura è sul punto di arrendersi alla più forte legge del cielo. L’aria qui libera dagli inganni, alimenta il desiderio e lo trasporta oltre i vincoli di sangue. Questo Duca fuori tempo è fortunato (e il lettore ne beneficia), perché capisce che da ogni dannazione ci si può liberare senza viverla come giustificazione per nuove condanne. Come l’amore più felice, anche l’odio può non nutrirsi di vendetta nei confronti di chi ci ha prima frustrati. 

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