Nato il 31 luglio del 1980, il primo libro su Harry Potter (“Harry Potter e la pietra filosofale”) è uscito nel 1997. Nel frattempo è cresciuto, scoprendo l’amore e la vita (LaPresse)

E il mago si è fatto uomo

Amelia Cartia

Dal romanzo di formazione al fantasy. Harry Potter, l’amato protagonista dei libri di J. K. Rowling, è cresciuto con i suoi lettori e ha inaugurato un nuovo genere letterario

Lo dovevamo capire dalla sufficienza che suscitava quindici anni fa, che sarebbe stato un fenomeno. Lo dovevamo capire noi che nei primi anni Duemila eravamo al liceo, e guardavamo all’entusiasmo che nei più piccoli svegliavano le avventure di Hogwarts, dalla superiorità di cui ci sentivamo investiti al pensiero che ehi, noi il fantasy lo leggiamo, ma solo quello serio, solo Il Signore degli Anelli, ché Tolkien sì che s’è inventato un universo. Ché non sarà mica un romanzo, invece, questa storiella per bambini.

 

E infatti no, non è un romanzo, Harry Potter: è proprio un’altra cosa. E’ un bildungsroman che si sviluppa a episodi, compiendo il miracolo di crescere di pagina in pagina insieme al suo lettore, trasformandosi da favoletta a thriller, nello spazio di sette libri e otto film, crescendo nello spessore dei volumi e in quello dell’introspezione psicologica dei personaggi, avviluppandosi in grovigli di profondità che mai, mai, avremmo sospettato, da quel banale “Il signor e la signora Duresley, di Privet Drive numero 4, erano orgogliosi di poter affermare che erano perfettamente normali”. Avevamo ragione, noi: Harry Potter e la pietra filosofale, uscito per Bloomsbury nell’estate del 1997 (tradotto in Italia l’anno successivo da Salani) era un

Avevamo ragione a snobbarlo, il bimbetto che volava sulle scope. La sua storia da undicenne era scritta per gli undicenni di allora

racconto per l’infanzia, e il suo incipit era un manuale di immaturità. Come tutte le favole raccontava di un bimbo rimasto orfano troppo presto e nascosto in un sottoscala da tronfi parenti ostili. E fin qui, è Cenerentola. E, come Cenerentola, Harry viene restituito al suo destino dal magico aiuto di una civetta postina e di un personaggio goffo come la Fata Madrina, il mezzo gigante Hagrid, nel giorno del suo undicesimo compleanno, il 31 luglio del 1991. E’ il Ragazzo che è Sopravvissuto, Harry, qualunque cosa voglia dire: il Male, quello grande, quello vero, rimane ancora sullo sfondo, è Colui che non deve essere nominato, un’ombra lontana. In primo piano c’è ancora un ragazzetto tanto imberbe che alla sua prima avventura a momenti ci avrebbe rimesso occhiali e pelle, se non fosse stato per la babbana (mortale d’origine ma infallibile negli incantesimi) Hermione Granger e per il fidatissimo Ron Weasley, pavido scudiero. Un ragazzetto che però man mano che l’orizzonte s’allarga e la storia si dipana, scopre di essere legato al Male che inizia a prendere una forma, scopre di parlare come lui la lingua dei serpenti, di sentire quello che lui sente, vedere quello che lui vede. Ma, fino al quarto capitolo della saga, la lotta è ancora tifoseria tra le casate della scuola: gli impavidi e un po’ spocchiosi Grifondoro di Harry, i conservatori fascistoidi Serpeverde di Draco Malfoy, in larga parte votati al Signore Oscuro, gli studiosissimi Corvonero e i pacifici Tassorosso.

 

Avevamo ragione noi, a snobbarlo, questo bimbetto sfigato che volava sulle scope, avevamo ragione noi: la magia, J. K. Rowling, la sua mamma di carta, ancora non l’aveva compiuta. Avevamo ragione noi, infatti, ma più ragione aveva lei: la storia dell’undicenne dovevano leggerla gli undicenni finché, di anno scolastico in anno scolastico, di libro in libro, di film in film, senza accorgersene quei pulcini sarebbero diventati adulti, e avrebbero lasciato il nido comodo della favola per trovarsi gettati nella vita, che non è mai di un colore solo come le favole vogliono farci credere per rassicurarci che i cattivi che l’hanno scritta in faccia, la cattiveria, e i buoni la loro bontà. Il male tenta, invece, tenta anche l’eroe, e nessuno ha scritto addosso il proprio destino. Parla la lingua del serpente, Harry, e le sue certezze cascano una ad una: dal Prigioniero di Azkaban in poi tutto inizia a tingersi di nero, e ciò che era temuto, l’evaso Sirius Black, si rivela il vero amico, padrino di Harry, mentre chi era amico inizia a tradire. Da lì in avanti è tutto un segreto svelato: eserciti occulti, le casate che si fanno armate, e la caccia che non è più al boccino d’oro nel gioco del Quidditch ma agli Horcrux, pezzi di anima del Male che ora ha un nome, e quel nome è Voldemort. Pezzi di anima spezzati uccidendo, pezzi di anima forse incastrati nella cicatrice a forma di saetta che di Harry è tratto distintivo, segno della sua salvezza, o minaccia della sua condanna.

  

Trentenni che continuano a schierarsi con una delle quattro case, mentre i bambini chiedono tutti di avere la sciarpa dei Grifondoro

Avrebbero dovuto leggerla i bambini, questa storia di vita, e ritrovarsi di anno in anno circondati dai grandi che un po’ scettici iniziavano a farsi rapire da una magia che niente ha di strano, se non la quotidianità. Perché la realtà della scuola di magia di Hogwarts si sgretola come si sgretola la vita, la fiducia scricchiola e il coraggio s’impone, man mano che Harry cresce tenendo la mano al suo cresciuto lettore. Lo dovevamo capire allora, nel 2007, che si sarebbe aperto un mondo, e che L’ordine della Fenice, Il Principe Mezzosangue e I doni della Morte avrebbero inchiodato anche noi, avrebbero coinvolto anche noi nella disputa tra le case, nella lotta tra bene e male, nella costruzione dell’identità di una generazione. Come David Copperfield, come il Giovane Werther, come soprattutto il Giovane Holden, il giovane Harry parte proprio da “un’infanzia schifa”: non v’è dubbio che sia un romanzo di formazione. E come tutti gli eroi, Harry non si sognava nemmeno di divenire tale: è questo l’elemento del racconto epico in chiave fantasy.

 

Come tutti i protagonisti dei romanzi di formazione l’impresa lo travolge senza che lui la cerchi per sé, anche in questo obbedendo a un topos della letteratura fantasy, dove il protagonista è tradizionalmente gettato in mezzo all’avventura a sua totale insaputa: uno su tutti il Frodo Baggins del Signore degli Anelli, inguaiato dal mago Gandalf, di cui Albus Silente è forse un calco. Per non parlare, ovviamente, del Jon Snow di Game of Thrones, entrato nel linguaggio comune come colui che “non sa niente” per definizione.

 

Bene e male si mischiano, si confondono, si scambiano di posto, finché non è più possibile capire chi è buono e chi non lo è. Che poi è proprio così che fa, la vita. Rincorre il lettore gettandolo dentro l’età adulta, la storia epica di questo eroe bambino: e niente ti sbatte a forza nel mondo degli adulti come essere tradito da qualcuno di cui ti fidavi. Harry diventa adulto non nel momento in cui scopre il male, dentro e fuori di sé, e trova la forza di sconfiggerlo. Non quando sembra sia morto e torna indietro, non quando vive una guerra capeggiando un esercito.

 

La realtà della scuola di magia di Hogwarts si sgretola come si sgretola la vita, la fiducia scricchiola e il coraggio s’impone

Harry diventa adulto quando il suo maestro e mentore, che lo ha cresciuto e salvato, si rivela il peggiore di tutti. Harry diventa adulto, e con lui chi lo legge, quando scopre di essere stato cresciuto come agnello sacrificale da Albus Percival Silente, il più potente, il più saggio dei maghi, che dall’inizio sapeva che tra le due forze lo scontro sarebbe stato epocale, e Harry e Voldemort avrebbero dovuto finirsi a vicenda (anche se al suo pupillo il mago aveva consegnato l’arma segreta della Pietra della Risurrezione, nella speranza che avesse la meglio). Harry diventa adulto quando vede quello che credeva essere il cattivo, il nemico, l’ostile Severus Piton, salvare uno che ostile lo era davvero, l’odiosetto Draco Malfoy, dal destino di farsi assassino, uccidendo in sua vece il maestro Silente. Quando Piton morente gli rivela in una lacrima di essere stato vessato da quello che il ragazzo riteneva un gigante, suo padre James, bulletto da liceo. Crollano i miti e si cresce a schiaffoni: Harry diventa adulto quando scopre che per tutto quel tempo era stato Piton il suo angelo custode, fedele alla promessa fatta a Lily Potter, suo unico amore mai ricambiato. Per salvare gli occhi di lei sopravvissuti sul volto del figlio, il Serpeverde Severus, nascondendosi a tutti (l’attore Alan Rickman rivelò che nemmeno i colleghi sul set erano a conoscenza del segreto del suo personaggio), veglia sul Ragazzo. Per amore. È amore quello che resta quando sul finire della battaglia campale l’intera scuola crede morto il suo condottiero, e tuttavia non cede al nemico perché è solo un uomo a essere caduto, non l’ideale. Ed è soltanto amore, infine, l’arma che il Ragazzo che non voleva essere un eroe usa contro chi voleva farsi onnipotente: “sei tu il debole, perché non conoscerai mai l’amore”.

 

La scrittura di Rowling, al pari della trama, cresce insieme a Harry e al lettore: ironica e leggera fino al Prigioniero di Azkaban, si affastella di invenzioni e commistioni dal Calice di Fuoco in poi, per poi assumere i toni del thriller noir nei Doni nella morte. Trait d’union che mantiene costante lo stile è solo il solido legame con la realtà, pur nello sfondo della magia, e l’uso, al modo dell’epica greca, dei nomi parlanti (Luna Lovegood, è una looney, una mezza matta, e Mirtilla Malcontenta era destinata dal suo nome a vagare come anima infelice).

 

Il bene non è mai bene e il male non è mai male: se una cosa J. K. Rowling ha insegnato alle generazioni di suoi lettori, è che niente è come appare, e va bene così. Che si parte interi e ci si trova spezzati. E che è quella, l’età adulta. Che l’anima si rompe, si corrompe, si può sbranare e mettere via, nell’illusione di non morire come aveva fatto Tom Riddle vendendo a pezzetti la propria anima al diabolico se stesso Voldemort, con il risultato – gli ex ragazzi lo sanno – di vendersi al male, e vivere da corrotti. E il senso di tutto si rivela già all’inizio: a salvare è solo l’amore, sempre l’amore, non una magia ha salvato la vita di Harry, la notte che Voldemort uccise i suoi genitori, ma l’amore di sua madre, che di qualunque magia è più potente. E non è una magia a tenerlo in vita, il ragazzo che è sopravvissuto, ma l’amore che per sua madre provava il personaggio più luminoso, per tutti il più oscuro, della serie, quel nero Severus Piton che custodisce in sé la luce – tutta – della saga, con quel suo “Sempre” detto a proposito del suo amore, sopravvissuto “dopo tutto questo tempo”, che è suo epitaffio.

 

Ed è come una storia d’amore che inizia la vicenda del caso letterario esploso a cavallo tra due secoli, tradotto in 80 lingue compreso il greco antico, record assoluto di incassi nella sua trasposizione cinematografica: una storia d’amore, ma al modo in cui le descriveva Ennio Flaiano, nato cioè con un sonoro “E ora chi è questa stronza?”. L’avventura di Harry Potter inizia con un fallimento su tutta la linea. Una collezione di porte prese in faccia dall’autrice, J. K. Rowling: una trentenne squattrinata e licenziata di fresco, divorziata presto e con passeggino al seguito, seduta al tavolino di un bar con zero speranze e una storia in testa. La tristezza di quei giorni ha ispirato i dissennatori, nere ombre che si nutrono di pensieri felici, lasciando inermi le vittime cui succhiano l’anima. Su quel tavolino mette insieme la struttura di un mondo dietro il mondo, e nel 1997 inizia a ricevere i rifiuti dalle case editrici cui lo propone. Continuerà a essere rifiutata anche dopo aver raggiunto fama mondiale e aver venduto centinaia di milioni di copie (Rowling è seconda in ricchezza, nel Regno Unito, solo a Sua Maestà la Regina): la signora ha un certo stile e ha voluto dimostrare che le stesse storie scritte con un nome de plume avrebbero continuato a venire rigettate.

 

Il passaggio all’età della maturità avviene quando scopre di essere stato salvato e cresciuto dal malvagio per eccellenza

Lei che è stata capace di inaugurare un genere letterario, e con esso un genere cinematografico: è un unicum, quello di Rowling, seguito ma fino a metà dal George Martin delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, che non è riuscito a star dietro alla sua creatura di carta, diventata la colossale serie Game of Thrones: lasciata in mano agli sceneggiatori Hbo la serie si è persa in un finale meno che mediocre, e ancora non sappiamo che idea avesse lo scrittore. Per Harry la storia è diversa, per lui la sua mamma di penna ha seguito anche parte delle sceneggiature, perché quello era il suo bambino.

 

Il 31 di questo mese Harry compirà 39 anni. Trentanove. E’ abbondantemente adulto, il maghetto, è un padre di famiglia come lo abbiamo visto sul finire dell’ottavo film della serie: con una moglie rossa di capelli, la sorellina del suo migliore amico Ron, e con tre figli da accompagnare al binario 9 e 3/4, all’inizio di un’avventura tutta loro. E per una generazione – forse due, facciamo tre – quella mitologia si è fatta agiografia: trentenni continuano a schierarsi con una delle quattro case, mentre bambini – magari i loro bambini – chiedono tutti di avere la sciarpa dei Grifondoro (sotto i dieci anni sono tutti eroi, non l’avete notato?), o di andare in pellegrinaggio al binario 9 e 3/4 della stazione di King’s Cross, a Londra. Segno che l’avventura non si è chiusa là dove la lasciava l’epigrafe a forma di saetta scritta in calce all’ultima pagina: “A te, che sei rimasto con Harry fino proprio alla fine”. E ce li vedi, tutti quei nostalgici, non ancora a proprio agio nelle loro vesti adulte. Ce li vedi, a ricacciare su una lacrimuccia, al pensiero che sia finita.

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