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Storie di infanzia e di paura

Giuseppe Fantasia

La prima regola è: mantenere le promesse. Otto racconti

I bambini sono belli o sono brutti, “da neonati sembrano dei piccoli Buddha” – ci disse, prima di Natale, Marina Abramovic: visione molto d’artista, poco reale. I bambini sono curiosi, innocenti, gentili, a volte perfino crudeli. Strillano, dicono cose anche quando non dovrebbero, hanno bisogno di attenzione, di coccole e di cure, hanno bisogno di amore. “I bambini dovrebbero essere tutti vivi, non sono astuti, sono bambini e basta”, scrive Beatrice Masini, scrittrice, editor e traduttrice (se, tra gli altri, avete letto Harry Potter in italiano, lo dovete a lei), in questo libro capace di far avvicinare in maniera diretta, divertita e appassionata anche chi quel mondo non lo conosce affatto, perché non ha potuto o, semplicemente, perché non li ha voluti avere, e guai a giudicare. Un mondo, quello degli otto racconti sui bambini, che non è mai chiaro anche se è conosciuto, uno di quelli in cui a contare sono le parole e i silenzi, gli sguardi e i gesti, le azioni e le promesse che, se non vengono mantenute, è un problema davvero. I bambini sono lì, al centro del tutto, pedine mosse dalla volontà dei più grandi (ma spesso accade anche l’esatto contrario), simboli di bisogni primari e continui che possono diventare, a seconda delle situazioni, un gioco, un vestito, un amico a tutti i costi o un abbraccio, come altre parole che scivolano via in attesa delle successive.

   

Per loro la spensieratezza è uno status che dura anche troppo così come l’immaginazione, necessaria ed espressa con facilità, quella che fa sì che una pioggia possa essere come “delle biglie di vetro in una scatola di biscotti” o “il semplice tamburellare di moltissime dita”. Nel mondo della Masini, che poi è il nostro, in bilico tra memoria, nostalgia e tenerezza, ci sono bambini felici, altri che lo sono stati, altri che non lo sono ma potranno esserlo, persino chi non lo sarà mai; ci sono quelli abusati dagli adulti come Allegra, la figlia di Lord Byron, andata via troppo presto, quelli che hanno ricevuto solo odio, quelli rapiti o scomparsi, quelli mai nati. Sono coraggiosi, come nel settimo racconto (“Io sono l’isola”), dove un Arturo morantiano ricerca sé stesso nella solitudine, si innamora di una sua coetanea (“chissà qual è la lingua del mare”, le dirà, vergognandosi di quelle parole subito dopo) per poi ricordarne solo una maglietta gialla piena di sangue.

 

I bambini hanno paura dei loro simili, dei loro giudizi, dei loro dispetti, di non essere capiti, accettati e ancora amati, di non avere abbastanza. Quando nessuno li aiuta, evocano dei personaggi immaginari, persino dei mostri (nel quarto ce n’è uno che si chiama “Striglio”); quando hanno paura di perdere l’amore, attirano ancora di più l’attenzione con frasi e gesti diversi a seconda del caso. “Sono io la tua principessa, vero?”, chiede una bimba a un padre nel primo racconto (“Principesse”), ricordando a lui, separato, “a cui non toccano i misteri dell’educazione”, ma solo “l’onnipotenza facile di un portafogli incline ad aprirsi spesso e di un modesto giorno da leoni”, il giusto valore da dare a quel titolo e, soprattutto, a chi.

  

I baci di una mamma sono obsoleti davanti gli amici di scuola. Tutto “è cominciato con i baci, la fine dei baci”: a otto anni si è grandi, ci si vergogna e “bisogna trovare un nuovo modo di volersi bene”. La voglia di crescere è tanta e qualcuno vorrebbe essere già grande per fare il mestiere che desidera, forse la giornalista o perché no?, il commissario ispettore. E gli adulti? “Pensa ad essere genitori”, scrive Beatrice Masini con uno stile che arriva sempre dritto al punto con eleganza, “pensa ad essere al loro posto”. Mica è semplice. “Se soltanto i grandi ne sapessero davvero di più. Invece ci danno case delle bambole, case di giochi in fondo al giardino, e sperano che ne restiamo prigionieri, che ci cresciamo dentro fino a non riuscire più a venire fuori, condannati alla salvezza miracolosa dell’infanzia”. Quelli veri, di bambini, restano dentro a una foto, consegnati a un’eternità che piace perché mette al riparo da un futuro in cui saranno grandi e a loro volta, forse, genitori. Avranno dei bambini e staranno male per loro per il solo fatto di averli messi al mondo a correre rischi che, a confronto, il dolore e la paura provati da piccoli, “non saranno nulla”.

  

Non avranno calcolato, come tutti, “il danno dell’amore”, “un’operazione semplicissima che con i suoi più e i suoi meno continua a confonderci”, la paura sarà sempre nostra sorella, perché “più grande è l’amore, più grande sarà la paura”. La si può conoscere, questo sì, ma non per questo ci si potrà difendere. La partita è stata solo anticipata e mai chiusa, bisogna andare avanti.

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