il figlio

Mia nonna è morta da sola, 24 giorni in ospedale senza la mia mano sulla sua

Alessandro Ferri

Le visite in ospedale proibite per la pandemia e solo un telefono per poterla sentire. Lei mi rassicurava, poi la straziante notizia. Da allora il rimorso mi accompagna

Mia nonna è morta il primo febbraio alle 7 della mattina, prima che sorgesse il sole invernale che ha scaldato per tutto il giorno il litorale laziale. E’ morta da sola. Un’ora e mezzo dopo la sua morte ero in auto per tornare a casa da Perugia, con un turbinio di domande nella testa, perché le cose che non mi tornavano erano tante.

Era entrata in ospedale il 9 gennaio: aveva problemi respiratori e si sentiva debole, ma tutto sommato la situazione non sembrava gravissima (prima di andar via in ambulanza aveva chiesto a mia zia, sua figlia, di prendersi cura del gatto). Arrivata al Pronto Soccorso è stata trasportata in “piastra”, ossia il reparto per i malati di Covid, in attesa di un tampone molecolare.

Qui è cominciato il calvario. Dopo tre giorni di informazioni sommarie è stata trasferita nel reparto di cardiologia, dato che non era risultata positiva. Non aveva il Covid. Le hanno diagnosticato una brutta polmonite, che unita all’insufficienza cardiaca di cui soffriva non era proprio il massimo. Ci è stato subito detto che non erano permesse visite per via delle precauzioni della pandemia. Una cosa assurda, alla luce di come è andata a finire.

Per più di tre settimane abbiamo intasato il registro chiamate del reparto di Cardiologia, facendo una fatica impensabile a capire cosa stesse succedendo, perché non sempre i medici avevano il tempo di rispondere. Per fortuna lei, donna intelligentissima e previdente, aveva portato con sé il telefono. Una cosa che per me che ho ventisette anni e mezzo è naturale, ma che per una persona di novantun appena compiuti è meno immediata. L’abbiamo chiamata (soprattutto l’hanno chiamata mio padre e mia zia) più volte al giorno, per farle capire che tutto era temporaneo e che anche se non poteva vederci, noi eravamo lì per lei. Solo non potevamo entrare.

Mia nonna sarebbe stata dimessa questa settimana, era migliorata sensibilmente e ce lo diceva ogni giorno per telefono, quando ci chiedeva di andare a prenderla, quando cercava di tranquillizzarci, quando mi chiedeva “Ma quando torni a casa?” (le avevo detto che sarei tornato venerdì, che per quel giorno sarebbe tornata anche lei e che saremmo stati insieme, a patto che si coprisse di più per stare in giardino, perché con quel vento il minimo che poteva capitarle era la polmonite).

Eppure il primo febbraio alle 7 è morta, da sola. Dopo 24 giorni in cui figli e nipoti non hanno potuto tenerle la mano, in cui magari ha pure pensato che tutto sommato in questo modo non sarebbe stata un peso. E’ morta in un modo ignobile, senza una logica che giustifichi un protocollo senza cuore. Sono vaccinato tre volte (con vaccinazione eterologa, perché appena ho potuto sono corso, per senso del dovere, a farmi iniettare il vaccino AstraZeneca nonostante fosse sconsigliato per la mia fascia d’età), avrei potuto fare un tampone prima di entrare in ospedale. Ne avrei fatti cento. Potevo pagare di tasca mia la tuta protettiva e ogni dispositivo di sicurezza che azzerasse le possibilità di contagio. Avrei voluto solo sentire di nuovo la sua mano sulla mia, o la sua voce che mi raccontava di quanto le stesse antipatica l’infermiera. Cose normali insomma, le cose che negli ultimi due anni abbiamo messo da parte senza rendercene conto.

Ho avuto un lutto intermediato da un telefono, senza avere il diritto di prendere in faccia il treno del dolore che ti investe quando perdi una persona che ti ha cresciuto. In tutto ciò, la cosa che mi strazia non è nemmeno il fatto che mia nonna sia morta: firmerei oggi per arrivare a novantun anni nel suo stato di salute mentale e fisico. Mi devasta non aver potuto fare niente quando ci diceva “Ma perché non venite? Ma quando posso vedervi?”. Col senno di poi, la risposta era “Mai più amore mio. Mai più”.

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