Quel che si perde

Giacomo Giossi

Migliaia di pagine per arrivare alla fine e dire: non sono più uno scrittore. L'idea totale di letteratura proposta da Knausgård

La storia inizia nel 2009, quando Karl Ove Knausgård, scrittore norvegese fino ad allora poco conosciuto, pubblica il primo volume de La mia lotta.

 

Il libro trasforma la vita di Knausgård proiettandolo tra i più interessanti, letti e tradotti scrittori della nostra epoca. Il volume è il primo di sei e contiene una storia minuziosa della vita dell’autore: romanzo di formazione, autobiografia, analisi minimalista del quotidiano, studio su cosa significhi scrivere e sul rapporto tra il reale e l’immaginario.

 

La storia inizia nel 2009 perché per la prima volta Knausgård deve confrontare – con l’uscita del primo volume – la sua vita con la sua vita scritta: fatto che viene appunto raccontato nell’ultimo volume de La mia lotta ora pubblicato in Italia da Feltrinelli con il titolo Fine.

 

Fine deve fare i conti con una storia che ha all’origine la morte traumatica di un padre tiranno, folle e violento che ha dato forma all’emotività di Karl Ove Knausgård, scrittore raffinatissimo che parte proprio da quella morte per raccontare una relazione e una lotta perenne che si rinnova come un movimento circolare da cui è impossibile sfuggire.

 

Fine mette in scena la vita di uno scrittore diventato padre che si ritrova nella condizione di vivere un tempo passato riscrivendolo e rianimando fantasmi che parevano ormai chiusi in un altro mondo, in un’epoca ormai conclusa. Fantasmi, ma anche compagni reali di strada, dallo zio Gunnar che sputa odio e rancore verso un nipote che secondo lui infanga la memoria del fratello e di tutta la famiglia, fino agli amici o alle ex fidanzate (più o meno immaginarie) che si trovano tra le mani il manoscritto in pubblicazione e insieme parte della loro vita raccontata.

 

Knausgård fa un movimento verso l’esterno dove riconoscere finalmente se stesso come scrittore. Un romanzo fatto di più volumi e di migliaia di pagine capaci di inseguire e dare vita a una storia qualunque. Knausgård utilizza Joyce e Proust, le loro visioni per una narrazione che, abbandonato il vecchio arnese del postmoderno, dà forma ad un’idea consapevole e matura di letteratura, priva di qualsiasi sentimento di inadeguatezza.

 

Poi c’è un secondo movimento che penetra l’intimità dell’autore, ora direttamente giudicato non dai lettori, ma dai suoi amici e parenti, ovvero dai suoi personaggi. Qui i gradi di separazione saltano totalmente così come salta il rapporto tra sé e suo padre. Tra lui che lo vive e lui che lo scrive non esistono più margini.

 

La lotta dunque è capire, questo è ovvio, ma è anche vivere: e per vivere è necessario provare e sentire su di sé anche il dolore oltre che l’amore degli altri. Questo è forse il compito più arduo, che Karl Ove Knausgård assolve con una luminosità rarissima, tanto netta da far impallidire molti celebrati scrittori americani.

 

Fine rappresenta l’ultimo passaggio di stato di un uomo e di uno scrittore che ha trasformato la vita in letteratura espandendola potentemente in un’opera che contempla anche elementi saggistici straordinari, come l’analisi fondamentale del “Mein Kampf” di Adolf Hitler – utile più di molti saggi storici ad individuare il legame spesso sottovalutato tra la nostra attuale società e quella degli anni Venti del Novecento e soprattutto tra la nostra percezione del tempo e quella che ne traeva del suo il giovane Hitler. Un lavoro delicato che obbliga l’autore norvegese a mettersi a nudo davanti al peggior incubo del nostro tempo.

 

Ma l’idea in un certo senso totale di letteratura proposta da Knausgård prosciuga l’uomo, la sua quotidiana: il tempo da dedicare alla famiglia, alla moglie e ai suoi tre figli.

 

Alla vita si direbbe che Knausgård preferisca la letteratura e così è più facile tornare al ricordo di quel padre feroce e autodistruttivo a cui ha paura a tratti di assomigliare: negli scatti d’ira, nelle ossessioni nei silenzi che precedono momenti di depressione o di rabbia. Come chiuso in un vicolo cieco Knausgård si trova costretto nell’angoscia di una colpa, tipica per uno scrittore: quella della falsificazione dei fatti come della propria vita. E se la relazione con il padre è l’incubo a cui è legato da sempre, proprio quel legame che ora è svelato nell’opera può salvarlo per riconoscersi finalmente e totalmente quale figlio e rispetto ai suoi quale padre.

 

Migliaia di pagine per raggiungere se stesso e poter finalmente scrivere: “Non sono più uno scrittore”.

 

Migliaia di pagine per colpire i lettori e restare potentemente in quel tempo prezioso che mischia vita e letteratura oltre ogni confine.

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