Sharon Van Etten sul palco al Music Festival di Zilker Park a Austin (Foto LaPresse)

La gravidanza di Sharon Van Etten e il caos che salva

Giulia Pompili

Come faccio, che sono incinta? Dentro a quella domanda della cantante c’è la variabile inattesa che scombina i piani ma lascia un equilibrio imperfetto e umanissimo

Come faccio adesso, con tutte le cose che devo fare? Come faccio a essere ancora un’artista che vive a New York, ora che sono incinta? Quando Sharon Van Etten ha detto alla sua migliore amica che aspettava un figlio, la regista Katherine Dieckmann stava per salire sul palco per presentare il suo film “Strange Weather” al Festival di Toronto: “Ha iniziato a piangere, e allora ho iniziato a piangere anche io”, ha raccontato Van Etten a Vanity Fair.

 

Come faccio adesso, con tutto quello che ho da fare? E dentro a quella domanda c’è la variabile inattesa che scombina i piani, che aggiunge confusione alla confusione: la sorpresa per Van Etten era già arrivata quando alla fine del tour per il penultimo album, “Are We There”, aveva deciso di prendersi una pausa, di iscriversi all’università e studiare Psicologia, e di convivere con il batterista Zeke Hutchins. Poi qualcuno l’aveva notata, e si era ritrovata a fare un provino per la serie di Netflix “The OA”, dove interpreta Rachel. E quella pausa si è trasformata in un altro lavoro, mentre riascoltava i demo delle canzoni scritte durante il tour. Com’è possibile, quando si hanno così tante cose da scrivere, da fare, da progettare, pensare a una gravidanza, a un figlio? Il legame con l’amica Katherine Dieckmann l’ha salvata, dice Sharon Van Etten.

 

Quel giorno a Toronto le ha mostrato una fotografia, e poi le ha detto solo: you’ll figure it out, troverai un modo. La foto mostrava i due figli piccoli di Katherine Dieckmann dentro a un caos assoluto, che farebbe svenire Marie Kondo, nella cameretta di casa: la bambina è nuda, infilata in un contenitore di plastica, e il più piccolo è seduto sul pavimento, che è ricoperto di qualsiasi cosa. E’ un’immagine spaventosa o invece di una confusione rassicurante, di un microcosmo che ha trovato il suo equilibrio fra giocattoli e disordine vitale. Due anni dopo, quell’immagine è diventata la copertina dell’ultimo album di Sharon Van Etten, “Remind Me Tomorrow”, uscito a fine gennaio.

 

Ed è un miracolo: oggi che il mercato musicale ha quasi dimenticato le copertine degli album, per lo streaming ma anche perché tutto deve avere una coerenza d’immagine, una riconoscibilità, e trasformarsi facilmente in merchandise, quella foto in copertina sembra uscita da un’altra dimensione. Anche se non risponde alle regole del mercato, è impossibile non guardarla, ignorarne il caos – l’“assurdità della maternità”, ha scritto Kenzie Bryant su Vanity Fair – mentre si ascoltano le canzoni dell’album. Con quella foto Dieckmann ha dato alla sua migliore amica la speranza di trovare un equilibrio, imperfetto e umanissimo.

 

“Abbiamo esaminato di nuovo il post e non rispetta i nostri standard della community in materia di nudo e atti sessuali”, dice Facebook quando provate a condividere la copertina di “Remind Me Tomorrow”. Ci sono stati problemi non solo sui social network, ma anche con qualche emittente americana che oscurava i volti dei bambini (che ora sono adolescenti e d’accordo con l’uso dell’immagine) perché nell’èra della suscettibilità il censore si muove prima ancora della polemica. E invece la foto è il motivo per cui sei mesi dopo il parto la cantautrice americana era di nuovo in studio a registrare, dopo aver riscritto alcuni testi delle dieci canzoni che poi ha scelto per “Remind Me Tomorrow”. Qualche pezzo era stato composto prima della relazione con Hutchins, ma soprattutto prima della nascita del figlio – e prima dell’elezione di Trump, ha detto lei a Elle. In quel periodo Van Etten indossava le cuffie e lavorava fissando suo figlio di pochi mesi: “Come faccio a rendere queste canzoni un po’ meno tristi?”, rifletteva, “È difficile, quando ti senti persa e non hai il controllo di quello che sta succedendo.

 

Ma è un buon esercizio pensare a una cosa: questo non è il nostro universo, è il nostro microcosmo”. Non serve cambiare tutto, basta cambiare qualcosa di noi. E infatti dentro l’album c’è la verità del rapporto con l'altro, come nel brano d’apertura “I told you everything” – che è il più cupo di tutti – e c’è l’amore familiare di “Jupiter 4” (“Baby I’ve been waiting, waiting, waiting my whole life / For someone like you”), ma anche la nostalgia dei diciassette anni (“I used to feel free / Was it just a dream?”). C’è qualche vita di distanza in confronto al verso più bello e commentato dell’album precedente, I washed your dishes. But I shit in your bathroom, un inno all’improvvisazione e alle relazioni instabili. Invece l’equilibrio, quello che si trasforma con la maternità, ha a che fare con il tempo. E il titolo dell’album significa anche questo: saper rimandare. E organizzare: “In fondo il calendario di Google è il nostro migliore amico”.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.