Alfred Hitchcock e Janet Leigh sul set di "Psycho" (Ansa) 

Il Bi e il Ba

Un viaggio allucinato nei luoghi di Hitchcock, tra realtà e finzione

Guido Vitiello

Dal Bates Motel al campanile di "Vertigo", le location del Maestro del brivido hanno un potere magnetico. Lo stesso di "Allucinazioni americane", il nuovo libro di Roberto Calasso

Allucinazioni americane. Una mattina d’agosto di qualche anno fa, mentre facevo le mie prime indagini per un libro su “Psycho”, ebbi l’idea di visitare la Misión de San Juan Bautista, dove Alfred Hitchcock aveva girato le scene più vertiginose della “Donna che visse due volte”. Da San Francisco la separano, a spanne, centocinquanta chilometri e centocinquant’anni, tanto è tagliata fuori dalle mappe di qualunque cosa si possa definire attuale – un po’ come il Bates Motel, a pensarci bene. Ero all’epoca posseduto da Hitchcock (credo non ci sia parola più adatta) e magnetizzato dai suoi luoghi, così mi precipitai verso la chiesetta come uno di quei personaggi stralunati e ontologicamente fuori posto che abitano i suoi film degli anni Cinquanta. Una suora minuta quanto imperiosa mi fermò dopo pochi passi: quella mattina, mi disse, la chiesa non si poteva visitare, perché stavano provando dei cori; che tornassi un’altra volta.

Anche a Scottie, nella “Donna che visse due volte”, accadeva di essere sorpreso da una suora sbucata dall’ombra in cima al campanile: nulla che non mi aspettassi di rivivere, nello stato mentale in cui mi trovavo. Ma io proprio al campanile volevo arrivare, e mentre la suora mi sospingeva verso la porta blaterando chissà cosa io scrutavo al di sopra della sua testa, aguzzando gli occhi in cerca della via d’accesso alle scale, che ricordavo a destra, in fondo alla navata, e che nel film è invece a sinistra, appena varcata la soglia. Rigettato sul piazzale di terra battuta davanti alla chiesa, feci qualche passo indietro e notai qualcosa di insolito: la torre del campanile non c’era. Eppure avrei giurato di averla vista, prima di entrare. Mi spiegarono poi che la torre non c’era, sì, ma che un tempo c’era stata: era finita distrutta in un incendio seguito al grande terremoto del 1906. A Hitchcock però quel posto piaceva lo stesso, e chissà che non gli piacesse proprio per questo: per via della torre che avrebbe potuto far vivere due volte, la prima nella realtà, la seconda come figmento, come apparizione cinematografica, ricostruita tramite modellini in scala, disegni e altri trucchi illusionistici.

Grazie alla sollecitudine di una seconda suora – che suggerì all’altra di usare più clemenza, considerato che ero venuto fin dall’Italia – potei entrare di nuovo e visitare, se non la chiesa intera, una strana auletta laterale – per metà presbiterio e per metà mausoleo. C’erano stole e pianete di vari colori conservate in teche di vetro lungo i muri, e al centro del pavimento di legno un’altra teca, scura e massiccia, in cui spiccavano una foto di scena di James Stewart e Kim Novak sulla torre campanaria fantasma, una bobina del film e, al centro della bobina, in una corolla di fori circolari, una maschera mortuaria in oro di Alfred Hitchcock. Mi ricordai che ben prima che André Bazin legasse il cinema alle arti funerarie e al complesso della mummia, erano stati gli antichi romani a trovare il nome giusto per il calco del volto del defunto: imago.

L’incredibile composizione di quell’altarino mi sarebbe tornata in mente, anni dopo, scorrendo il cablogramma che Sam Frey aveva mandato a Hitchcock per convincerlo a cambiar nome al film (a quelli della Paramount “Vertigo” non piaceva). Tra i quasi cinquanta titoli: “The Apparition”, “The Phantom”, “Dream Without Ending”, “The Mask Illusion”. Tutti questi ricordi californiani si sono trasfigurati, avvolti da una nebbiolina verde, man mano che mi facevo strada in “Allucinazioni americane”, il nuovo libro di Roberto Calasso. Il lettore capirà perché.