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La lentezza ormai imbarazzante della nostra giustizia va abbattuta

Piero Tony

Nel resto del mondo civile la giustizia si è aggiornata da anni rispetto alle nuove esigenze. In Italia siamo rimasti molto indietro

La situazione della giustizia pare tragica da anni, ciononostante si continua a fingere di non capire e con spudorata ipocrisia si continua a saltabeccare da un paradosso all’altro dribblando l’evidenza. E cioè la necessità di bandire le chiacchiere e dare una svolta radicale a un sistema che, parte centrale della struttura portante dello stato, da decenni tollera – con continuo rischio di rigetto – di essere considerato dalla comunità internazionale quasi come un interessante oggetto di antiquariato. Cosa fare nel dettaglio come primo passo? Magari succedesse: ispirazione culturale alla Calamandrei (“cercare di introdurre nella norma l’umanità e il rispetto”) con recupero dell’originario significato mediatorio dei conflitti; abbasso il magistrato tuttologo tuttofare e domestico; organizzazione di competenze, uffici e carriere secondo princìpi di accorpamento anche sovranazionale e di alta specializzazione; incremento degli organici innanzitutto amministrativi.

Non si può continuare a fare finta di niente. Come se la lentezza per una risposta di giustizia (8 anni nel settore civile sembrano fatti apposta – lo si è detto anche all’ultimo incontro di Cernobbio – per respingere qualsiasi investimento, oltre 10 anni, se si calcolano anche i reati prescritti, nel settore penale) non fosse tale da equivalere sovente a una vera e propria inesistenza di giustizia. Come se l’enfatizzazione di misure cautelari e di prevenzione, l’“incontrollata discrezionalità processuale” rilevata dalla Corte europea (23.2.2017, De Tommaso), le carriere tuttora non separate etc etc – “peculiarità italiane” vengono ormai paternamente definite e denunciate dalla Cedu e dal resto del mondo, data l’abitudine – fossero tutte birichinate e non invece feroce diniego di giustizia e confisca di diritti compreso il diritto a un giusto processo.

 

Faccio l’esempio dei meditati provvedimenti contro la corruzione. Ma non vi pare che sia davvero ipocrita fingere di non capire come nei reati contro la pubblica amministrazione a struttura bilaterale – due soli soggetti ovviamente in riservato tete à tete, chi paga e chi incassa – tipo corruzione, concussione, induzione indebita e simili, sia inimmaginabile un agente sotto copertura che non diventi necessariamente anche agente provocatore a meno che non si travesta da posacenere o lampadario?

 

E non è ugualmente paradossale, in una situazione di giustizia paralizzata dall’ormai ingovernabile carico di pendenze, girare la testa dall’altra parte e mantenere quel divieto di reformatio in peius che in sostanza costringe moralmente imputato e difensore – se non lo facessero passerebbero per fessi e incoscienti – ad appellare in ogni caso e contro ogni evidenza, così incrementando il corteo senza speranza di procedimenti moribondi? E non è paradossale perseverare con la solfa dell’obbligatorietà dell’azione penale, scritta sulla Carta ma troppo spesso disattesa nella prassi quotidiana e utilizzata come alibi, per giustificare sia l’intasamento delle procure sia, ove necessario, interventi impropri o intempestivi? E non è ipocrita strizzare l’occhio a un codice tendenzialmente accusatorio, restando muti e distratti di fronte alla gravità sia di una sempre più manifesta centralità delle indagini di polizia sia di un dibattimento non raramente ridotto a rappresentazione teatrale su testo scritto dagli investigatori nella fase delle indagini?

 

E cosa è se non paradossale il giocare alle tre scimmiette di fronte a uno scenario della giustizia che – con il passaggio dalla prova indiziaria a una prova scientifica sempre più sofisticata e complessa – sta cambiando nel mondo e non prepararsi per tempo ideando e istituendo almeno quelle sezioni giudiziarie specializzate e interdisciplinari che già prevede l’art. 102 della nostra Costituzione? Nel resto del mondo civile la giustizia si è aggiornata da anni rispetto alle nuove esigenze. Senza pretendere di eguagliare in lungimiranza la Germania – dove le scuole dell’obbligo addirittura usano preparare gli alunni in vista di occupazioni lavorative che per ora non esistono ma prevedibilmente esisteranno – occorrerebbe davvero darsi una mossa. Sarà sicuramente una casuale congiuntura ma negli Stati Uniti si posero il problema delle modalità di approccio del giudice alla prova scientifica fin dagli albori del secolo scorso (sentenze Frey del 1923 e Daubert del 1993) approdando ad alcuni principi cardine, consenso generale della comunità scientifica e criteri di rifermento a lettura interdisciplinare.

 

Da anni gli esperti ritengono che la custodia cautelare serva solo a “corrompere ulteriormente” e andrebbe limitata al massimo

La pena rieducativa il più delle volte viene di fatto applicata solo dopo un mucchio di anni dalla condotta deviante

Uno degli effetti della “maledetta” lentezza è, non di rado, la corsa persa contro i tempi massimi della durata di custodia cautelare

E noi? Balza agli occhi che oggi la tradizionale logica induttivo-inferenziale animata da approssimative massime di esperienza indizianti (art. 192 cpp) è scolorito reperto da riporre in soffitta rispetto all’evidenza tecnica; che pertanto prima o dopo si potrà giudicare solo o soprattutto sulla base delle prove scientifiche disponibili (videografiche, medico-legali, genetiche, proiettive, digitali, neuroscientifiche, balistiche, tabulatocentriche, informatiche, telematiche, tossicologiche, antropometrico facciali, telefoniche, e proiezioni algoritmiche); ma che – qui casca l’asino – notoriamente scienza e tecnica neanche lontanamente appartengono (né potrebbero appartenere) al sapere professionale del magistrato, che è solo e soltanto – almeno per ora – studioso specialista di diritto.

 

D’altra parte la Corte di cassazione ha più volte stabilito (ex multis V, sent. 27.3.2015, n. 36.080) che la prova scientifica non può ambire a un credito incondizionato di autoreferenziale attendibilità, che il giudice deve porsi criticamente davanti alle prove scientifiche che gli vengono rappresentate… senza nessuna fideistica accettazione del contributo peritale perché il processo penale ripudia ogni idea di prova legale ( pre-valutata dal legislatore ). Il principio in astratto pare giusto e allo stato condivisibile; resta da chiedersi come il giudice possa fare tutto ciò e porsi criticamente davanti a linguaggi e discipline a lui estranei e comunicare in arabo senza conoscerlo e distinguere motivatamente tra coincidenza fortuita ed errore senza approfondimenti su dati statistici e loro elaborazione; dubbio che attanaglia sia rispetto all’osservazione diretta che a quella mediata da consulenti e periti che sempre in arabo saranno costretti a parlare. E allora cosa può pretendere la difesa delle parti oggi affinché – in attesa che ci si decida ad affrontare il problema o processualizzando gli accertamenti tecnici o specializzando il giudice come previsto dall’art. 102 della Costituzione – il libero convincimento non rischi di tramutarsi in libero arbitrio? Poco ma meglio di nulla: la massima dialettizzazione dei metodi scientifici e il rispetto formale: questo sì che può essere controllato anche da chi non conosce l’arabo dei protocolli scientifici “allo stato dell’arte”. Ma pare che il silenzio sia d’oro. 

 

Ma il massimo dell’ipocrisia è non denunciare che l’esiziale lentezza della giustizia è di fatto incompatibile con l’art. 27 della Costituzione laddove al terzo comma prevede che le pene debbano “tendere alla rieducazione del condannato”. Quindi pene previste non come punizione, non come contenimento di pericolosità, non come riequilibrio emotivo del contesto sociale, non come strumento di prevenzione primaria e secondaria, non come rivalsa per la vittima ma, solo o soprattutto, come emenda. Ossia correzione e miglioramento morale. Pena rieducativa che, potendo arrivare a esecuzione solo dopo sentenza definitiva (art. 27 della Costituzione), il più delle volte di fatto viene applicata – qualora il procedimento riesca a sopravvivere fortunosamente a prescrizione e accidenti vari – dopo un mucchio di anni dalla condotta deviante, quando l’autore del reato è persona diversa che può essersi ravveduto e reinserito per conto suo (soprattutto se delinquente occasionale) o può invece aver pericolosamente recidivato chissà quante volte. Brutto bandito, ieri hai rapinato la banca. Tra 20 anni ti spiegherò perché non dovevi farlo.

 

Passano anni per arrivare all’udienza preliminare e sottolineo “preliminare”. Altri anni per concludere il dibattimento. E poi anni per appello e Cassazione. E altri mesi se non anni per il procedimento di esecuzione (artt. 655-676 cpp). Enzo Tortora scrisse in una bella lettera dal carcere a Francesca: “Con questo sistema giudiziario tutto può accadere a tutti”. E Giovanni Agnelli con il suo tono blasè amava ripetere: “Siamo davvero eccentrici, da noi si sconta la pena prima del processo e dopo si viene scarcerati, l’esatto contrario del resto del mondo”.

 

Niente da fare, qualsiasi effetto della pena rieducativa non può decollare se non dopo la definitività della sentenza, cioè il suo passaggio in giudicato a conclusione di codesti numerosi anni. Come non bastasse, possono intervenire complicazioni eccezionali, le disfunzioni sono tali che non raramente pacchi di sentenze ormai definitive sono risultati giacere da anni negli armadi delle cancellerie per l’inadeguatezza degli addetti – non è dato capire se sottodimensionati o demotivati o incapaci ma sicuramente addetti fuori di qualsiasi controllo. Per altro verso – lo si segnala solo incidentalmente – in altri armadi sono rimasti a candire altri pacchi di provvedimenti con cui tribunali di sorveglianza avevano concesso la liberazione anticipata (art. 54 dell’Ordinamento penitenziario) e che, se eseguiti, avrebbero determinato la scarcerazione degli interessati. Che dire?

 

Premessa lunga ma proporzionata alla monumentale ipocrisia della questione. “Individuato e fermato lo stupratore. E’ violentatore seriale già condannato in primo grado per reati della stessa indole ma dopo aver proposto appello era stato scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare”. Siccome fatti del genere avvengono sempre più frequentemente – la preoccupazione dello scrivente riguarda naturalmente non i reati bagatellari ma quelli di offensività grave e diretta contro la persona, quali sono ad esempio maltrattamenti intrafamiliari, atti persecutori, abusi sessuali, lesioni aggravate et similia – non pare del tutto superfluo un momento di riflessione.

 

Perché uno degli effetti della maledetta lentezza è, non di rado, la corsa persa contro i tempi massimi della durata di custodia cautelare (artt. 303 ss cpp) e la conseguente necessità di scarcerare una persona potenzialmente pericolosa.

 

Tutto perché la pena rieducativa è prevista dallo stranoto art. 27 della Costituzione solo per il “condannato” e non per l’“imputato”, e si può restare imputati per anni. Perché qualsiasi operatore di giustizia sa che anche secondo l’Ordinamento penitenziario il trattamento rieducativo è previsto solo per i condannati in via definitiva (artt. 1 ss L. 26 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni). E per esperienza professionale, finanche minima, sa che d’altronde non sarebbe neanche immaginabile programmare il trattamento previsto dall’ordinamento penitenziario mediante l’imprescindibile “alleanza rieducativa” (la “alleanza terapeutica”, in uso da molti anni nei paesi nordeuropei e anglosassoni per reati di ambito relazionale, da noi è ancora ipotesi di studio), nei confronti di un soggetto che, a tutti gli effetti presunto non colpevole, da un momento all’altro può tornare in libertà per cessazione delle esigenze cautelari e che in cuor suo vive solo e soltanto nella speranza di essere scarcerato il giorno dopo o comunque al più presto. E’ una delle ragioni per le quali da anni gli esperti ritengono che la custodia cautelare serva solo a “corrompere ulteriormente” e andrebbe limitata al massimo.

 

Le ragioni di urgenza – per altri versi – non di rado vengono normativamente affrontate con risultati utili. Se c’è il sospetto che un bimbo o comunque un minorenne venga maltrattato in casa, il tribunale per i minorenni non aspetta di intervenire dopo tre gradi di giudizio ma, come è previsto da specifica normativa, lo toglie ai genitori e lo colloca in ambiente protetto, con provvedimento “di efficacia immediata” stante l’urgenza (art. 741 cpc). Naturalmente le parti potranno impugnare e coltivare i successivi stati e gradi di giudizio e ottenere riparazione se quel sospetto dovesse risultare infondato. Grave la limitazione della loro potestà ma ancora più grave il rischio per il prioritario interesse del minore.

 

Ancora. E’ previsto in via generale che, qualora sia intervenuta sentenza di condanna penale di primo grado, si possa condannare l’imputato al pagamento di una provvisionale o alle restituzioni e al risarcimento del danno in via provvisoriamente e immediatamente esecutiva “quando ricorrono giustificati motivi” (artt. 539-540 cpp), naturalmente impregiudicato il diritto di impugnazione. Anche in tal caso è ravvisabile una pesante compressione di diritti personali in assenza di sentenza definitiva, ma ricorrono giustificati motivi.

 

E il povero imputato che, data l’esasperante lentezza della giustizia, deve aspettare anni per essere rieducato? Con l’aggravante che nell’attesa permane il rischio per la povera vittima di trovarselo davanti, in caso di scadenza del tempo di custodia cautelare, senza che nessuno abbia nemmeno tentato di rieducarlo e di riportarlo a ragione e dunque pericoloso come prima se non più. “Orrore” diranno tutti, credendo di intuire dove voglia andare a parare.

 

Non è così. L’unica certezza dello scrivente è che occorrerebbe discuterne per trovare il modo di uscire dall’assurdo. Al limite solo continuando ad annaspare in un mare di ipocrisie e paradossi alla ricerca di una boccata di ragionevolezza.

 

Signor giudice: ma quale abuso, io l’ho messa al mondo e io per primo ho il diritto di adoperarla (sic) mazza e panelle fanno i figli belli panelle senza mazze fanno i figli pazzi, dovevo restare disonorato? Volevo educarla, io voglio bene a mia moglie, due schiaffi non hanno mai fatto male a nessuno, la trattavo da regina e mi voleva lasciare, la donna urla ma le piace, ma quali atti persecutori: voleva fare la puttana, l’ho chiusa a chiave in casa per proteggerla, carota e bastone diceva mia madre, mi ha infangato davanti a tutti, e così via.

 

Credo fermamente che l’ignoranza sia madre di buona parte dei delitti e che chi li compie creda sempre di farla franca. Credo che – come non si stancava di ripetere anche Giovanni Falcone – un minimo di giustizia sociale e cultura e vicinanza siano il primo e irrinunciabile passo per combattere la criminalità e ricondurre a ragione il deviante, a meno che non si tratti di delinquente ormai incallito nel crimine da decenni. Sono convinto che spesso basti un vibrato ammonimento ingiuntivo, un segno di vita e di interesse da parte delle istituzioni per fermare comportamento tanto violenti da apparire a prima vista irrefrenabili. Ma non dopo 20 anni.

 

Magari avessi il coraggio di augurarmi o proporre a chicchessia che, qualora 1) si tratti di gravi e diretti reati contro la persona quali maltrattamenti abusi sessuali atti persecutori lesioni aggravate, e in più2 ) l’imputato sia stato arrestato in flagranza o comunque fermato con misura precautelare e poi colpito da una confermativa misura di custodia cautelare in carcere, e in più poi 3) sia stato condannato in primo grado, non sarebbe irragionevole pensare di poter iniziare la sua rieducazione dichiarando provvisoriamente ed immediatamente esecutiva la sentenza di condanna detentiva di primo grado. Né sarebbe impossibile trovare il sistema di armonizzare la modifica con il contesto costituzionale, soprattutto quanto ai princìpi di offensività e ragionevolezza; e, perché no?, di difesa, in quanto muterebbe solo il titolo di restrizione ed in quanto la lentezza di giustizia è tale che troppo spesso vengono sforati i termini di custodia cautelare e si è costretti a scarcerare persone rimaste a candire pregiudizievolmente per anni (pardon!) in stato di abbandono. Naturalmente resterebbe fermala presunzione di sua non colpevolezza, il suo diritto di impugnare e, in caso di successiva ma improbabilissima assoluzione, di ottenere adeguato risarcimento.

 

Volesse il cielo che se ne potesse discutere. Anche solo per sentirsi dire che tutto va bene , che basta e avanza la pena tardiva , che anticipare gli effetti della pena – seppure a fin di bene per tutti – vanificherebbe la presunzione di non colpevolezza nonché il diritto di impugnazione . Oppure per concludere che l’art. 27 andrebbe modificato con legge costituzionale nel senso che là dove è scritto “rieducazione” devesi leggere e intendere “occhio per occhio dente per dente”. Oppure che la lentezza va abbattuta in poco tempo e senza pietà mediante la mobilitazione degli Stati generali della giustizia, onerandoli anche della partecipazione ai programmi di lavoro. Tutto tranne che far finta di niente.

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