Mario Ciancio Sanfilippo in una foto del 2001 (Imagoeconomica)

Due giustizie, nessuna giustizia

Giuseppe Sottile

La verità giudiziaria ancora non c’è, ma per l’editore Ciancio arriva intanto il sequestro dei beni

Da un lato c’è la giustizia penale, quella terribilmente lenta che cerca e ricerca le prove, che valuta la tesi dell’accusa ma ascolta pure la difesa, che dopo il primo grado propone appello e infine si affida alla Cassazione: perché senza una sentenza passata in giudicato non c’è verità, e se non c’è verità non ci sono né colpe né peccati. E’ lo stato di diritto, bellezza.

  

Dall’altro lato c’è la giustizia dell’antimafia, fondata sul sospetto, che con il pretesto dell’emergenza eleva a valore di prova quei sussurri che spesso sono legati soltanto a un indizio, a una diceria; oppure a un odore di fritto il cui fumo raramente lascia intravedere la carne che sta a rosolare sulla graticola. Una giustizia imprevedibile che tuttavia fa scattare subito i suoi effetti: perché intanto il tribunale, quello delle misure di prevenzione, ti sequestra il patrimonio e ti iscrive subito nella categoria degli appestati. Sei colpevole o innocente? Poi si vedrà. E’ la morte civile, bellezza.

  

Nella tenaglia di queste due giustizie è rimasto intrappolato un personaggio certamente non secondario: Mario Ciancio Sanfilippo, 86 anni, editore del quotidiano La Sicilia, con epicentro a Catania, e della Gazzetta del Mezzogiorno, giornale radicato soprattutto a Bari e in Puglia. L’antimafia gli ha sequestrato tutto: oltre ai due quotidiani e a due emittenti televisive, i carabinieri, su ordine della autorità giudiziaria, hanno messo i sigilli a 31 società, a conti correnti in Italia e all’estero, a polizze assicurative e a ogni altra proprietà per un totale, stimato, di 150 milioni di euro. Come primo atto, Mario Ciancio ha lasciato la guida de La Sicilia, seguito dal figlio Domenico, che era il condirettore. “Lascio oggi con amarezza la direzione di questo giornale da me assunta con passione, entusiasmo e spirito di servizio nel lontano 1967”, ha scritto nell’editoriale di congedo. “Ma lascio a testa alta perché non ho commesso alcuno dei reati di cui sono accusato. E lo dimostrerò. Per questo, e direi nonostante tutto, mantengo intatta la fiducia nella magistratura”. Quale magistratura? L’altra giustizia, quella penale, quella che comincia con un avviso di garanzia ma sancisce la presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva, non è riuscita in quasi dieci anni a stabilire se Mario Ciancio – certamente un ricco uomo di potere – abbia traccheggiato con i boss mafiosi che infestavano con la loro violenza e la loro sopraffazione la vita di Catania. Circolavano da quelle parti boss come Nitto Santapaola, chiamato alla fine degli anni Settanta da Michele Greco, detto “il Papa”, a fare parte della cupola di Cosa nostra; o come Giuseppe Ercolano, che nel 1993 si era presentato, con tutta la sua spocchia, alla redazione de La Sicilia, chiedendo conto e ragione del perché fosse stato definito dal giornale “noto boss mafioso”. Ciancio lo aveva ricevuto nel suo studio e il procuratore Carmelo Zuccaro, che ieri ha tenuto una conferenza stampa per illustrare le ragioni che hanno spinto il suo ufficio a chiedere il sequestro dei beni, ha ricordato non a caso quel lontano episodio e lo ha inserito a pieno titolo nel mosaico dei sospetti. “Quello che ci colpì – ha detto – era l’apparente normalità del fatto che un elemento noto e riconosciuto come esponente di Cosa nostra catanese avesse accesso alla sede della Sicilia e fosse portato davanti al direttore il quale, lungi dal far fronte contro quello che doveva essere un nemico rispetto all’opera dei suoi uomini, chiamava davanti a sé il giornalista per chiedergli di dare le proprie spiegazioni”. Anche se il capo della procura ha voluto assegnargli ieri un peso considerevole nella configurazione della cosiddetta “pericolosità sociale” – preludio, come si sa, al sequestro dei beni – l’incontro con il boss Ercolano non sembra avere avuto una valenza essenziale nel processo penale che dall’inizio del 2010 tenta invano di stabilire se Ciancio, sotto inchiesta per “concorso esterno in associazione mafiosa”, abbia effettivamente aiutato i boss ad accrescere il loro potere. Anzi. Le prove inserite dai pm in quel processo non avevano per nulla convinto, alla fine del 2015, Gaetana Bernabò Distefano, giudice per le indagini preliminari, che con una ordinanza a dir poco clamorosa non solo aveva prosciolto Ciancio dall’accusa di fiancheggiare la mafia ma aveva anche affrontato una questione più generale: e cioè la necessità di qualificare meglio in sede legislativa e giurisdizionale il reato di concorso esterno, fino a oggi relegato in un limbo di indeterminatezza che offre sin troppo spazio all’arbitrio di ogni singolo magistrato.

  

Con il proscioglimento deciso dalla Bernabò Distefano, e soprattutto in considerazione di quella parte dell’ordinanza nella quale veniva esclusa la rilevanza ai fini accusatori delle fonti di prova, la vicenda di Ciancio sembrava avviarsi a conclusione. Ma una dichiarazione polemica del capo dell’ufficio dei gip, Nunzio Sarpietro, e l’inevitabile ricorso della procura hanno spinto la Cassazione ad annullare la decisione della Bernabò Distefano e a riaprire i giochi. Con quei tempi biblici, che, non riuscendo ad assicurare comunque una verità, hanno lasciato Ciancio appeso a quella catena di indizi e sospetti che l’antimafia militante – a cominciare dalla commissione parlamentare, presieduta nella passata legislatura da Rosy Bindi – ha contribuito non poco ad alimentare.

  

Il 20 settembre scorso però, oltre alla gogna, è arrivata pure la batosta. E che batosta: applicando la legge sulle misure di prevenzione, quella dettata dall’emergenza e basata soprattutto sulla cultura del sospetto, la sezione “misure di prevenzione” del tribunale di Catania, su richiesta della procura, ha deciso di non aspettare i tempi lunghi della giustizia penale e di passare in quattro e quattr’otto al sequestro dell’intero patrimonio. Tutto legittimo, per carità. Ma quali effetti avrà il provvedimento sui lettori e, più direttamente, sugli oltre cento redattori e tipografi che ogni giorno mandano in edicola un quotidiano come La Sicilia, fortemente legato al territorio ma all’un tempo fortemente attraversato da quella crisi che da almeno una decina di anni sconvolge il mondo dell’informazione?

   

La litania delle solidarietà assicura per ora ai giornalisti della testata una straordinaria vicinanza. E persino i magistrati della procura, gli stessi che hanno insistito per il sequestro, hanno tenuto ieri a sottolineare che i custodi giudiziari nominati dal tribunale faranno di tutto per garantire la libertà e la professionalità della redazione, la cui direzione è stata assunta intanto, con il malincuore che la modalità ha comportato, da Antonello Piraneo, fino all’altro ieri caporedattore centrale. I tempi, a La Sicilia, non erano già felicissimi e il giornale negli ultimi anni ha accumulato un deficit di bilancio che l’editore ha rimarginato man mano di tasca propria. Cosa succederà nei giorni a venire, quali strumenti avranno i custodi giudiziari per mantenere integra la quota di mercato e chiudere i conti in pareggio?

  

La legge teoricamente – molto teoricamente – prevede che il decreto del tribunale possa essere capovolto in appello e la difesa di Mario Ciancio cerca, come si suole dire, di affilare le armi: se i magistrati hanno sostenuto che il patrimonio è finito sotto sequestro perché si era “implementato illecitamente, giovandosi anche di finanziamenti occulti”, l’avvocato Carmelo Peluso insiste invece nel sottolineare che “è indispensabile conoscere il profilo dell’uomo Ciancio Sanfilippo: egli discende da una famiglia prestigiosa e molto benestante, diventata con il passare dei lustri e delle generazioni sempre più facoltosa grazie a investimenti intelligenti, coraggiosi e anche fortunati, ma innanzi tutto una famiglia nata ricca”; e se le accuse rimarcano la tesi secondo la quale la sudditanza de La Sicilia nei confronti dei boss sarebbe addirittura cominciata nel ’74, i difensori fanno notare che nel 1984 Carlo d’Inghilterra e la moglie Diana furono ospiti di Ciancio, e che quella ospitalità fu passata al setaccio non solo dal prefetto di allora ma anche e soprattutto dai servizi segreti inglesi.

   

Dettagli, si dirà. Che rischiano probabilmente di lasciare in ombra la questione centrale. Che è la seguente: i magistrati sostengono che l’editore e direttore de La Sicilia ha asservito il quotidiano alla mafia e che i giornalisti sarebbero stati privi della libertà di pensiero. Ci sarebbe stata cioè una contrapposizione, lunga parecchi anni, tra il “padrone” che addirittura finiva per riciclare i soldi sporchi di Cosa nostra e i giornalisti che invece avrebbero voluto opporsi alla linea sciagurata del fiancheggiamento e della complicità. Una linea – quella dell’editore malvagio e della redazione sottomessa – che prima di finire in un atto giudiziario così importante e così pesante era stato il cavallo di battaglia dell’antimafia più politicizzata; la stessa che ora, tramite il presidente della commissione regionale, Claudio Fava, si augura apertamente che la proprietà della testata sequestrata a Ciancio venga al più presto trasferita a quei giornalisti siciliani “che in questi anni hanno cercato e raccontato la verità sulle collusioni e le protezioni del potere mafioso al prezzo della propria emarginazione professionale, dei rischi sofferti, della solitudine”.

  

Resta in piedi la domanda: ma veramente i giornalisti de La Sicilia, lungo i cinquant’anni in cui si è protratto l’impero di Ciancio, sono stati “privi della libertà di pensiero”? In una nota ufficiale i redattori, riuniti in assemblea, mettono le mani avanti e ribadiscono che il quotidiano La Sicilia “è sempre stato dei giornalisti”. “Non consentiamo quindi ad alcuno – insistono – di speculare sulla nostra professionalità che, come sempre, continueremo ad assicurare in nome di una indipendenza e di una libertà di stampa che non sono mai venute meno”.

   

Una dichiarazione della quale la giustizia dovrà tenere conto. Già, ma quale giustizia? Quella dell’antimafia, dettata dall’emergenza e sostanzialmente basata sul sospetto, ha già colpito. Inesorabilmente. Quella penale è messa lì che dibatte e rinvia, che rinvia e dibatte. Ma la verità resta ancora lontana. Dovrà celebrarsi il processo di primo grado, poi l’appello, e dopo ancora spetterà alla Cassazione. Chi vivrà, vedrà. Ma chi sopravviverà?

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  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.