Gran Milano

Tra timori e solidarietà: il 7 ottobre della comunità ebraica a Milano

Giovanni Seu

Timori, ansie e paure "anche solo per uscire di casa la sera". Il risvolto della guerra in medio oriente che colpisce la sfera privata dei cittadini

Mantenere un profilo basso. È la parola d’ordine che circola nella comunità ebraica di Milano dopo l’esplosione del conflitto in Palestina che vede coinvolti molti membri in modo diretto, in quanto sono tante le famiglie che hanno parenti in Israele. I consigli diramati in queste settimane – tipo evitare gli assembramenti e curare l’abbigliamento in modo da non lasciare trasparire un legame con l’ebraismo – non sono una novità, ritornano ogni volta che si riaccende il conflitto israelo-palestinese. Ai singoli è anche consigliato di evitare polemiche, ponderare le dichiarazioni in pubblico, non lasciarsi andare in battute che possono trovare una risonanza negativa sui social. Per il resto si prosegue la vita di tutti i giorni, come spiega il delegato alla comunicazione della comunità, Davide Blei: “Continuiamo ad andare al lavoro, a frequentare le scuole, gli uffici e cerchiamo di offrire un sostegno a chi ne ha bisogno, come i 50 bambini arrivati da Israele verso cui ci siamo mobilitati per integrarli il più possibile in questa nuova realtà”. L’ipotesi che si arrivi a scenari parigini, con la stella di David disegnata sulle vetrine dei negozi ebraici, è considerata poco probabile: “L’Italia è diversa, Milano è una città in cui sentiamo la vicinanza, penso che il 90 per cento dei milanesi nutra sentimenti positivi nei nostri confronti. Certo non abbassiamo la guardia, non possiamo escludere nulla”. 

Sono circa 7 mila gli ebrei residenti in città ma solo poco più della metà è iscritta alla comunità. Molti hanno origini asiatiche, c’è una forte componente iraniana e anche libanese. Difficile tracciare un quadro socio-economico, se in passato spiccava una predilezione per le attività commerciali oggi si può dire che non esiste una professione maggioritaria. Fuori della comunità ci sono i cosiddetti ortodossi e altri gruppi che preferiscono frequentarsi in forme più ristrette. Anche dal punto di vista geografico non si può fare una mappa, non esiste come a Roma un quartiere ebraico: punti di riferimento sono la sinagoga di via Guastalla e la zona di Bande Nere dove si trovano la scuola ebraica e diversi ristoranti Kosher. Proprio in questi locali sono state rinvenute scritte violente di carattere antisemita: “Dal questore e dal prefetto ho avuto rassicurazioni sulla nostra sicurezza”, spiega il consigliere comunale del Pd Daniele Nahum che individua una cesura nella manifestazione dello scorso 21 ottobre, su cui ha presentato una denuncia assieme a Emanuele Fiano, dai forti toni antisemiti: “Molte famiglie della comunità provengono dal Medio oriente, conoscono quella cultura e anche la lingua: sentire gridare in arabo ‘morte agli ebrei’ è stato scioccante, ho parlato con diverse persone che hanno ammesso di essere spaventate, di avere paura a uscire la sera”. Sulla stessa linea Filippo Jarach, militante leghista: “Il livello di attenzione è molto alto, è stata rafforzata la presenza delle forze dell’ordine in via Guastalla, nella scuola. A livello politico la comunità ha scelto una linea di prudenza, ad esempio alla manifestazione di sabato organizzata dalla Lega saremo presenti solo a titolo personale”. 

Al momento l’unico sotto scorta è il rabbino, oltre alla senatrice Liliana Segre. La comunità dispone di una sorta di intelligence interna che segnala pericoli e insidie che è possibile incontrare in città. Ma è quasi impossibile prevenire sentimenti antisemiti che possono arrivare anche dal vicino di casa: “C’è stata qualche aggressione verbale per strada – racconta Davide Romano, direttore del Museo della Brigata Ebraica – e nei luoghi di lavoro ma si è preferito non presentare denunce per evitare l’effetto emulazione. Ci troviamo a vivere situazioni dolorose, amicizie che si spezzano, legami che si interrompono, anche portare un cognome ebraico può diventare un problema: alcuni hanno preferito toglierlo dal citofono per evitare molestie, ci sono interlocutori che cambiano atteggiamento solo apprendendo dal nome di avere a che fare con un membro della comunità”. Un clima pesante, o quantomeno faticoso che non rappresenta una novità: “Siamo tornati al 1982, quando a Roma venne ucciso il piccolo Stefano Gaj Taché che aveva due anni – sostiene Romano. Se vogliamo descrivere il sentimento che stiamo vivendo, più che la paura e lo stress emotivo: è il voltarsi indietro, quando ci si trova in ristorante kosher, per vedere chi è il nuovo entrato giusto per assicurarci che si tratti di un volto amico”. Emergono anche aspetti positivi: “Persone che non hanno mai frequentato la comunità chiedono di fare incontri, di vederci: il senso di appartenenza è comunque molto forte e in questi momenti si rinsalda”.

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