Ansa  

granmilano

Il modello “Milano  fa da sé” è finito. Il saggio messaggio di Sala

Fabio Massa

Le parole del sindaco a Meloni e l’implicito abbandono di un’idea che non regge alle nuove sfide. Per ripartire

Ormai se ne parla poco, di “modello Milano”. La coppia di paroline magiche era emersa quando Giuliano Pisapia sconfisse Letizia Moratti. Modello Milano, ovvero la città che voleva aprirsi, non rimanere chiusa, che voleva parlare di diritti e riprendere a respirare dopo gli anni duri della crisi economica (o era il berlusconismo?) che avevano abbrutito il milanese imbruttito. Poi, con Expo, il “modello Milano” diventa il modello di Beppe Sala. E’ la città che trionfa, che diventa attrattiva più di ogni altra, che macina utili, record, trionfi. Poi, ancora, arriva il modello Milano che si specchia in sé stesso come Narciso, un po’ troppo, poi arriva il Covid. E tutto affoga nella pozzanghera di una autocelebrazione prona a a trasformarsi in recriminazione: tutto bello ma i balconi piccoli, le case minuscole e costano un botto, quell’economia di relazione impossibile se la relazione non esiste e i giovani li cacciamo sotto le tende al Poli. Addio modello Milano, nessuno ne parla più. Ma è meglio uscire dalle contrapposte retoriche.

 

In questi 15 anni quelle due paroline sono state declinate in mille modi diversi. Modello Milano è quello in cui la pubblica amministrazione non si fa mettere sotto dagli interessi privati ma li sa gestire, è quello che bada alla sostenibilità, che tutela tutti i diritti, che promuove una collaborazione tra pubblico e privato dove il privato deve contribuire al pubblico in modo economicamente rilevante, è quello che fa i grandi eventi e le grandi opere, è il modello delle piste ciclabili, della mobilità alternativa, dolce e confusionaria, della elettrificazione eccetera eccetera. Ma in effetti, per i cultori della politica meneghina, modello Milano – in origine – non era questo. Era riassumibile altresì nella spiegazione concisa che Carmela Rozza, Pd, (ai tempi in Comune, oggi in Regione), diede in una trasmissione di Telelombardia: “Modello Milano significa che la città fa da sola e non aspetta che arrivi Roma”. Era l’orgoglio del territorio che fa da sé. Che non aspetta niente e nessuno. Che se deve decidere, e ha le risorse, agisce. Un bellissimo messaggio di speranza all’Italia: anche lontano da Roma c’è la possibilità di far bene. 

 

Bel messaggio, ma grave errore. Perché lontano da Roma, senza Roma, non si fa nulla, o in ogni caso si riesce a fare meno di quello che si potrebbe fare: perché in Italia non ci sono autonomie dritto per dritto, né tantomeno città anseatiche. E – come già si diceva nel 2014 di fronte ai ritardi di Expo poi recuperati mirabilmente da Sala – nella Capitale, politicamente parlando, Milano non conta niente. Certo, ci sono i milanesi al governo, e ce ne sono molti. Ma non esiste una “lobby” politica milanese, tantomeno bipartisan, che tuteli gli interessi della città. Esistono in Parlamento sacre unioni trasversali napoletane, casertane, sicule o emiliane, torinesi o valdostane. Non esiste un gruppo bipartisan (che per dimensioni sarebbe tra i più numerosi e potenti, peraltro) che difenda gli interessi di una città come Milano (che è anche una bella fetta degli interessi lombardi). I milanesi in Parlamento sono divisi, nel gioco del “l’un l’altro si rode”. La situazione è questa, e non è mai cambiata dai tempi di Letizia sfotticchiata malamente da Tremonti (“Il governo non è tuo marito”). Non è cambiata ai tempi di Matteo Renzi, amatissimo da Milano ma che non ricambiò con nessun ministero di peso. Non è cambiata dopo.

Intanto però, la città è mutata. Ha investito e investito su opere che necessariamente non hanno solo un costo di realizzazione, ma anche e soprattutto – a lungo termine – un costo di gestione. Questo è vero in particolar modo per quanto riguarda i trasporti, e la M4 è un ottimo esempio. Ma non c’è solo questo: l’elettrificazione del traffico e del trasporto pubblico è un costo, la sostenibilità è un costo, i diritti stessi sono un costo, lo sport di base è un costo. Laddove ci sono aziende come A2A, che sono solo di azionariato pubbliche, ma di fatto sono colossi di respiro nazionale, gli investimenti sono sostenibili. Laddove invece si tratta di servizi puri, come lo sport, o i trasporti, o le case popolari, il fiato diventa corto. Anzi, cortissimo, stante il fatto che l’espansione della città è soprattutto una espansione dei desiderata. I fondi che investono miliardi pretendono una Milano con un certo standard, e così gli abitanti che scelgono di arrivare attratti da servizi che devono essere garantiti.

 

Tutto questo precipita, ne è la premessa e anche la chiave interpretativa, nel discorso che il sindaco Beppe Sala ha pronunciato tre giorni fa all’assemblea generale di Assolombarda, davanti a Giorgia Meloni.  E che in tal modo assume un significato ben diverso da quello – che qualcuno ha voluto leggere – di un leghismo-autonomismo d’antan. “Vogliamo cambiare in meglio noi stessi e ispirare un’altra volta il paese nella costruzione di un futuro degno della nostra gloriosa storia. Ma per far ciò abbiamo assolutamente bisogno di un intervento attivo da parte del governo. Capisco che nel suo ruolo (ha detto rivolgendosi a Meloni, ndr) debba porre grande attenzione alle aree meno sviluppate del paese. E’ giusto, è condivisibile. Ma non si può non comprendere che la crescita si può realizzare solamente se chi sa guidarla continua a essere in grado di fare con grande energia la sua parte”.

La sintesi è semplice: Milano da sola non può farcela, non può reggere il peso della propria crescita, del proprio corpo troppo cresciuto. Non con un governo di colore differente (ma non che prima andasse meglio) che non vede in Milano alcun modello da tutelare. Non con l’irrilevanza dei propri politici e l’assenza della lobby territoriale. La sintesi della sintesi: il modello Milano è morto. E – a suo modo – questo decesso è la rivoluzione politica degli ultimi 15 anni.
 

Di più su questi argomenti: