Un palazzo a Milano (Ansa)

granmilano

La Caporetto dei servizi sociali comunali, un welfare da rivedere

Cristina Giudici

A Milano il sostegno che il comune offre alle famiglie più in difficoltà non riesce a stare dietro alle richieste. Degli aiuti potrebbero arrivare dal terzo settore

Scarpe da tennis spaiate buttate sul marciapiede. Sul muro, la scritta cubitale di un writer: “Gli unici stranieri sono gli sbirri”. All’interno, in una casa popolare Aler del quartiere Giambellino, un quadro di desolazione pasoliniana: una bombola del gas vuota rotola su un piccolo prato pieno di spazzatura dove giocano i bambini al ritorno da scuola (se sono andati a scuola). Alcuni appartamenti inagibili hanno le porte murate, altri sono sigillati con una lastra di metallo per evitare che vengano “sfondati” da altri occupanti abusivi. E in un angolo del cortile, carcasse di motorini che paiono macabre installazioni di una periferia malata che nessuno riesce a curare.

 

Francesca Gisotti, pedagogista diventata assessora al Welfare del Municipio 6 parla con i residenti per rassicurarli, per far capire che le istituzioni non li hanno abbandonati, ma poi ci dice: “Purtroppo sono sempre di più gli abitanti che non sono seguiti dai servizi sociali. Per molte famiglie è più immediato e facile bussare alle porte di un’associazione che comporre il numero del Comune e chiedere aiuto”, spiega lei, che in questo quartiere ci è nata e cresciuta. Il sistema del welfare del Comune di Milano – budget complessivo annuale di 260 milioni di euro, 9 milioni spesi nel 2021 per il sostegno al reddito – si affida sempre di più al Terzo settore con cui ha collaborato per elaborare il Piano di Zona per le politiche sociali di durata triennale.

 

Il Piano di Zona sarà portato presto in giunta dall’assessore al Welfare di Beppe Sala, Lamberto Bertolè, che osserva: “Il nostro obiettivo è di potenziare il welfare territoriale grazie a una maggiore collaborazione con il Terzo settore perché bisogna riuscire a incrociare l’offerta dei servizi con il bisogno della popolazione ancora più sofferente dopo la pandemia per riuscire a sostenere non solo il 10 per cento dei residenti che vivono nelle case popolari, ma anche chi una casa non ce l’ha più”. Secondo Bertolè gli assistenti sociali del Comune (300, a cui vanno aggiunti quelli esterni inseriti nei diversi progetti di associazioni e cooperative) sono in media con le altre città europee: uno ogni 4 mila abitanti. Ma i cittadini presi in carico dai servizi sociali sono 34 mila (prima della pandemia, nel 2019, erano 32.500). Un numero rilevante per una città dove la narrazione della Milano “a place to be” ormai non convince più.

 

Un numero che inoltre non rispecchia l’esigenza reale di famiglie in difficoltà. Basta parlare con gli educatori dei tanti progetti del Terzo settore a cui il Comune si affida per intercettare le sacche di emarginazione escluse da ogni sostegno pubblico per capire quanto sia ampio il perimetro dell’esclusione. Tutti o quasi, quando si parla del lavoro dei servizi sociali, dicono sempre la stessa frase: “Non escono”. Cioè nessuno viene a prendersi cura in prima persona. Anche se, va precisato, gli assistenti sociali per legge non possono “uscire” e andare a bussare alle porte delle persone. Quindi per cercare di essere aiutati bisogna comporre un numero di telefono, chiedere un colloquio e sperare di passare al secondo livello della “presa in carico”. Anche se ora si parla più di “accompagnamento” più che di presa in carico per cercare di ridurre il mero assistenzialismo. 

 

Eppure gli operatori che lavorano nelle periferie continuano a battagliare perché “se segnaliamo una situazione critica, al netto della professionalità di tanti assistenti sociali, la trafila è troppo lunga”, ci spiegano al Corvetto. “Non escono”, insistono gli educatori. Sembra un mantra, ma per loro vuol dire una cosa sola: il sistema delle politiche sociali non è in grado di gestire tutti i bisogni delle persone vulnerabili. I tempi di reazione sono lenti, ci hanno detto in tanti: “Se uno chiama e gli danno appuntamento un mese dopo, quel momento ‘magico’ in cui si possono agganciare minori in difficoltà rimasti soli, anziani finiti nel baratro, famiglie devastate passa e poi svaniscono nel nulla”.

 

All’interno del Piano Zona, Bertolè porterà in giunta anche la proposta di creare la figura del welfare community manager. E cercherà di rafforzare il modello ispirato alla sussidiarietà perché ci vuole una rete sociale robusta. Ma se le persone che restano ai margini non chiamano i servizi sociali per diffidenza o vanno a bussare alle porte delle associazioni per avere aiuti immediati, “forse, al netto di tutti i validi interventi del welfare comunale, dovremmo chiederci se si debba rivedere il modello”, ragiona Rossella Sacco, portavoce del Forum del Terzo Settore città di Milano che – aggiungiamo noi – non può essere la soluzione per tutte le emergenze. Infatti il 26-27 settembre, alla presentazione di Milano Arch Week – manifestazione dedicata alle trasformazioni urbane e al futuro delle città che si terrà nella primavera 2023 e sarà focalizzata sulle periferie – fra le domande a cui si cercherà di dare risposta ce n’è una che è già una risposta assai scorata: perché vivere a Milano è così estenuante?
 

Di più su questi argomenti: