Una sfilata della Fashion week di Milano (Ansa

Gran Milano

E poi c'è Palazzo Morando. Quante mire sul museo della Moda

Fabiana Giacomotti

A Milano ritorna d'attualità l'idea della creazione di uno spazio dedicato al mondo del fashion. Qualche giorno fa la viceministro alla cultura Borgonzoni ne ha parlato con sindaco Sala, mettendo a disposizione consistenti risorse. Ma non sarà cosa facile: una discussione che va avanti da anni

Qualche giorna fa la senatrice Lucia Borgonzoni, viceministro della Cultura, è arrivata a Milano, ha incontrato sindaco Beppe Sala e giunta, ha detto di avere a disposizione per il 2023 fondi consistenti per la ristrutturazione e la riallocazione di uno spazio industriale a struttura polifunzionale destinata alle start up e allo studio della moda contemporanea. Ha avuto la sventura di chiamarlo “museo”, e i giornali si sono buttati a peso morto sulla notizia, annunciando che “finalmente” anche Milano, punta di diamante del famoso sistema che genera oltre 91 miliardi di fatturato all’anno con un export di 65 e un saldo commerciale positivo per 30 eccetera eccetera, avrebbe avuto “il suo museo” della moda. 

 

Borgonzoni ha usato la parola corretta, perché il “Museóon”, o “luogo caro alle muse”, identifica esattamente quello che ha in mente e cioè, come dice al telefono, “un luogo di alta formazione per i manager e i creativi del futuro e che sappia attrarre innovatori e studiosi anche in chiave di sostenibilità”; nonché una sede per “unire servizi legati alla moda, eventi, manifestazioni culturali e mostre temporanee che rispecchino il senso della moda come fenomeno sociale e di costume”. Insomma, la viceministro Borgonzoni ha in mente qualcosa di simile al Museum at Fit – Fashion Institute of Technology di New York, governato da Valerie Steele. 

 

Nella percezione della maggior parte dei milanesi e dell’Italia tutta, che scambia la cultura della moda con quello che si mette addosso la mattina, meglio se griffato, il museo della moda è invece un luogo del tutto ininfluente, per cui, esattamente come una parte non trascurabile della stampa, non sa che un luogo di esposizione e conservazione di abiti c’è già. Anzi, che in tutta Italia ce ne sono diversi, quasi tutti gestiti alla maniera italiana, cioè per camarille, non sempre di efficiente e autonoma levatura professionale e culturale.

A Firenze, c’è la Galleria del Costume di Palazzo Pitti, resa celebre anche dall’opera di studiose eccelse come Roberta Orsi Landini, che ha lavorato a lungo sui frammenti cinquecenteschi del guardaroba di Eleonora da Toledo e Cosimo I, e che ora si avvarrà di un piano di rilancio sotto le brillanti cure di Eike Schmidt. A Roma, invece, langue il Museo Boncompagni Ludovisi, oggetto di rivalità fra signore prestate alla curatela e privo di un qualsivoglia progetto di recupero o sviluppo nonostante ora il sindaco Gualtieri (vedere pagina a fianco) abbia rilanciato l’idea di un museo romano. A Milano ve ne sono addirittura due. Fra le brochure che lo stesso Comune di Milano diffonde durante la fashion week ai gentili visitatori, ve n’è una che li elenca: “Non perdetevi il Museo di Palazzo Morando di via sant’Andrea e il Silos/Armani”.

 

Accantoniamo il Silos, che ha storia diversa e perlopiù privata e concentriamoci sul Morando. Oggetto di un lontano lascito famigliare, collocato nel cuore del Quadrilatero, è retto da un gruppo di serissime ma timide studiose fra cui spiccano Ilaria De Palma e Chiara Buss, massima esperta di sete sulle quali Milano dice la sua da mezzo millennio. Sostenuto più da un gruppo di cittadine bennate e molto colte (l’associazione “Amichae”) che dal Comune stesso, il Morando vanta un fondo archivistico poderoso, distribuito fra lo stesso palazzo e il Castello Sforzesco, custodito con cura meticolosa, con orgoglio e con pochissimi denari.

Quando lo diciamo a Borgonzoni, rilancia con l’idea niente male di un “museo diffuso” su più sedi: quella centrale del Morando, dove peraltro anche Vogue Italia organizza ogni anno – a pagamento si intende – la sua esposizione di giovani talenti durante la fashion week, sfruttando la posizione prestigiosissima dell’edificio, e il centro polifunzionale ancora da identificare. Nonostante l’apparente levità, la partita per il museo della moda sarà pesante. Lo è, in realtà, da molti anni, al punto che tutti i progetti di sviluppo del Morando nell’ultimo quindicennio sono naufragati fra veti incrociati, mire troppo sfacciate o troppo poco serie, profferte di gratuità curatoriale da brividi, mostre di dubbia solidità. Non è un caso che anche Beppe Sala, fino a oggi, se ne sia tenuto lontano.
 

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