Il Foglio della moda

Dove va la moda adesso

Fra globalità in via di ripensamento e il conflitto al cuore dell'Europa, un numero sulle variabili che contano adesso per non perdere quote, mercati, clienti

Fabiana Giacomotti

Per festeggiare il primo anno del Foglio della moda, Kearney ha sviluppato con i venti maggiori brand del lusso una ricerca sul tema del momento. Che no, non è la creatività. È la filiera e la logistica, cioè quello che troveremo o meno nei negozi e online nei prossimi mesi

E così, il grande cruccio delle aziende della moda di lusso al momento non è la creatività che, ci perdonino i beniamini del sistema, di certo non si può comprare ma è anche parecchio migliorabile con un buon direttore merchandising e il make up del migliore stylist sul mercato (so di non scrivere cose ignote, ma capita di “spacchettare” una bella sfilata per ricavarne quattro felpe, due gonne, un camiciotto e un paio di sandali carini che saranno poi l’argomento di vendita di tutta la collezione). La grande ansia del momento, e questa indagine condotta in esclusiva da Kearney per “Il Foglio della Moda” lo dimostra, non è tanto la cappa disegnata da Demna Gvasalia, quanto il modo per portarla a un costo accettabile a Kim Kardashian per coprirsene le imponenti forme.

 

L’ansia che aleggia nelle stanze di vertice dei grandi nomi della moda sono i trasporti e la tenuta della supply chain, la “catena dei fornitori” piegati dall’aumento dei costi energetici dopo due anni di pandemia, i fornitori di tessuti con i magazzini pieni di invenduti pandemici e dunque poco disposti a realizzarne di nuovi anche a fronte di pagamenti sull’unghia. Cose così, basiche, poco seducenti rispetto alle passerelle ultimamente piegate anche loro da chi non considera la moda espressione dell’industria ma della vanità, insomma un circo di bellissime ballerine e sfaccendati di garbo che osa mostrarsi quando altrove si combatte (si combatte sempre da qualche parte nel mondo, dunque per coerenza la moda non dovrebbe mostrarsi mai, però questo conflitto russo-ucraino ci riguarda da vicino, i bambini di Kyiv assomigliano ai nostri e allora ce ne siamo accorti). Solo questi patimenti, questi dubbi, queste notti trascorse in bianco per i costi che lievitano a doppia cifra e le materie prime che scarseggiano anche senza l’embargo posto ai diamanti russi, spiegano l’improvvisa comparsa sulle ultime passerelle di partite di jersey e cotoni stampati visti nei campionari di qualche anno fa.

 

Guardandola in una logica puramente ambientale, cioè di utilizzo dell’esistente e di riduzione degli sprechi, osservare che finalmente si mette mano ai magazzini non è un brutto segnale, anzi il contrario. Significa, innanzitutto, che guardare alle rimanenze di stagione e trarne il meglio si può e che il direttore creativo deve farsene una ragione, anzi volgerla a proprio vantaggio, come mossa di grande attenzione alla salvaguardia del pianeta, in caso qualcuno si accorgesse del ricorso al modello Scarlett O’Hara, cioè alle tende di casa (tranquilli, non se ne accorge quasi nessuno). Ma non ci sono dubbi che questi ultimi due anni abbiano accelerato un processo di ri-creazione e revisione del sistema che, ad altre condizioni, non sarebbero avvenute prima di dieci anni. Forse mai.

 

Quando, con la multinazionale di consulenza nel global management Kearney e il suo principal Dario Minutella, abbiamo iniziato a valutare su quale argomento concentrare la ricerca per questo numero che avrebbe segnato il passaggio dal primo al secondo anno di pubblicazione dell’inserto e che sarebbe stato sostenuto da un convegno (trovate i pensieri e le analisi di tutti i relatori da pagina 3), il controllo della logistica e della supply chain erano già le leve più importanti di questo momento storico, rese ancora più evidenti da due anni di pandemia in cui la dipendenza pluridecennale dalla Cina e dal Far East nella produzione, più ancora che nell’export, si era rivelata drammatica. Il segnale che la situazione stesse cambiando in via strutturale e che tutto il baloccamento attorno al metaverso fosse un diversivo per tenere occupati clienti e stampa avida di novità è stato, ed è tuttora se non di più, la corsa delle multinazionali del lusso all’acquisizione di piccole e medie imprese artigiane o manifatturiere di eccellenza. Dovessimo dire il nome di chi ha suggerito senza esplicitarlo il taglio di questo numero, citeremmo Jean François Palus, direttore generale del gruppo Kering, quando aprì il grande centro logistico di Novara nella primavera del 2020 (ne scrive a pagina 4), e poi Gildo Zegna e Patrizio Bertelli quando, nel luglio del 2021, acquisirono la storica, eccellente manifattura Filati Biagioli i cui proprietari “erano stanchi”, come ha ricordato il patron di Prada la scorsa settimana nel convegno organizzato da Confindustria Firenze, e dunque avrebbero finito per chiudere, togliendo un altro mattoncino al delicato palazzo della manifattura italiana, un tale vanto per il Paese che bisogna implorare i ragazzi perché la scelgano come professione.

 

Dunque, la logistica (a proposito: mancano ingegneri gestionali a dozzine) e la filiera. Attorno a un ricco elenco di domande, lungo tutto il mese di marzo gli analisti di Kearney hanno ascoltato e preso nota delle risposte di trenta manager che siedono ai vertici della moda lusso in Italia e all’estero sui temi della filiera e delle maggiori preoccupazioni che nutrono per il momento e per il futuro. Tutti mettono l’aumento dei costi di trasporto e dell’energia ai primissimi posti come elementi “impattanti” sui prossimi bilanci, ma non dimenticano affatto, in una percentuale vicina al 20 per cento, i danni che porterebbe al sistema la possibile chiusura dei propri terzisti, fiaccati da due anni di pandemia e ora dalla guerra in Ucraina che, se ha conseguenze immediate e dirette solo per gli industriali della calzatura del fermano, da sempre molto esposti con l’export a est (sì, lo sappiamo, avrebbero dovuto diversificare prima, ma non tutti i produttori sono anche imprenditori), ne porterà a breve su altri fronti. La moda come la conosciamo non è più da molti anni, in realtà da oltre un secolo, un sistema di produzione diretto. Pochissimi brand del pret-à-porter hanno acquisito o conservato le proprie fabbriche (e, credo, fu Giorgio Armani il primo a farlo, ancora negli Anni Novanta, acquistando progressivamente i propri terzisti).

  

  

La maggior parte dei brand si sono basati, e in buona parte si basano tuttora, su contratti di manifattura, di façon per dirla in francese, facendo ricorso ad aziende dislocate nei grandi distretti italiani, per l’abbigliamento e la maglieria soprattutto il Piemonte, il Veneto, l’Emilia, la Puglia. L’attuale, spasmodica ricerca di piccole realtà di eccellenza da comprare, risponde perfettamente a una delle domande-cardine della ricerca: il time to market nelle consegne. I porti della California sono ancora intasati di navi cargo in attesa di riprendere il largo dopo quasi due anni di fermo. Idem nel sud est asiatico. La guerra al cuore dell’Europa ha rimesso nel pallottoliere le priorità. Dunque, fra poco ci sarà sempre meno merce disponibile, nonostante la richiesta sia ancora molto alta (sì, la moda sarà pure vanità, ma per capire quanto questa incida nelle scelte di vita del mondo occidentale, basta riguardarsi le foto delle file chilometriche dello scorso week end per la riedizione dello Speedmaster Omega nella versione di Swatch). Urge correre ai ripari. Alla domanda posta dal team di Minutella sulle “azioni previste dai marchi di lusso per mitigare le principali sfide operative” del momento, le risposte vertono infatti e principalmente su “nuove strategie di fornitura, ordini più contenuti e differenti tipologie di spedizione”, cioè numero e distribuzione geografica dei fornitori. Meglio lavorare a costi più alti, limando anche un po’ i margini senza rivalersi sul cliente finale (la strategia di Brunello Cucinelli, non condivisa da tutti ma molto netta) rispetto a non consegnare affatto o ad offrire merce scadente, scelta che impatterebbe in maniera decisiva sul valore di marca.

 

Credo che le scelte, vicine entrambe al 40 per cento delle preferenze, di offrire supporto finanziario ai propri fornitori o di riconoscere loro gli extra costi dovuti al momento sia un ottimo segnale per la definizione del perimetro di sistema che in Italia sembra sempre un’utopia nonostante sia l’unico Paese che abbia mantenuto una filiera intatta. E, ancora, sebbene si trovino entrambe all’ultimo posto, sono interessanti le risposte relative alla logistica e agli acquisti. “Creare delle alleanze su acquisti, trasporti, logistica con marchi non concorrenti” è una prassi in uso da decenni nel largo consumo, ma del tutto sconosciuta nella moda. Considerando che, al di là del meraviglioso racconto che fa di sé e della contiguità con la cultura, la moda è e resta industria, anzi, la prima espressione dello sviluppo industriale di un paese, potrebbe tenere conto di questo aspetto per migliorare le proprie performance, insieme con l’”aumento nell’adozione delle tecnologie per migliorare i processi di previsione e programmazione”, altra nota dolente come chiarisce Minutella che, però, vede anche una maggiore presa di coscienza del tema negli ultimi mesi. In merito alla sostenibilità, appare evidente come in questo momento si punti ad obiettivi facilmente raggiungibili; primo fra tutti, particolarmente utile ed efficace data la congiuntura, il riciclo di materiale, anche nella simpatica e mediatica versione “vintage”.

 

Molto più difficile da perseguire, e infatti è collocato all’altro capo della lista, è piuttosto il miglioramento dell’equità sociale lungo la catena del valore. La grande sfida non è solo evitare di inquinare i fiumi all’altro capo del mondo con gli scarichi della tintura dei tessuti. E’ evitare che le operaie la bevano perché non possono permettersi altro. Un punto che a Minutella interessava particolarmente e personalmente, e che infatti ha indagato con attenzione, riguarda le tecnologie che i brand di lusso prevedono di implementare nel breve-medio termine per migliorare i propri risultati di vendita. Al primo posto figura “l’adozione di strumenti che migliorino la visibilità delle scorte con precisione e in tempo reale” (in effetti, non ci fa piacere pensare che l’abito a cui siamo interessati per la cena importante di sabato sia presumibilmente disponibile nella boutique di Londra e ci verrà consegnato domani salvo scoprire che era stato venduto ben prima della nostra ricerca e che dobbiamo buttarci nella prima boutique sotto casa per risolvere), seguito dall’identificazione di altri “dispositivi per migliorare il processo di evasione degli ordini” e di pianificazione.

 

Molto significativa, in questo contesto, è anche la progressiva scelta dei brand di gestire direttamente il proprio e-commerce. Una scelta che ha senza dubbio guidato i multimarca della vendita di lusso (Mytheresa.com, ynap, giglio.com, luisaviaroma.com), in un posizionamento sempre più selettivo e personalizzato, affiancato da collaborazioni esclusive con designer e influencer e dal coinvolgimento diretto dei propri clienti. Non è un caso che, fra i desiderata maggiori di tutti, figuri l’accesso ai dati di ogni cliente. Una materia che, nonostante le leggi emanate in questi anni, non è stata ancora esplorata con sufficiente attenzione. Eppure, e al di là di come la si pensi, è proprio all’incrocio di questi dati che si situa e che è possibile tracciare il perimetro della creatività concessa ai direttori creativi, il motivo per il quale certe collezioni ci paiono create per un mercato non occidentale e in effetti lo sono. Anche il gusto, ormai, è questione di industry.

Di più su questi argomenti: