Com'è pop l'antimafia di Pif
Si sa che in Italia chi fa televisione sente il peso di non fare il cinema, chi fa il cinema sente il peso di non fare lo scrittore, chi scrive sente il peso di un paese che non legge. Se ne esce solo con l’impegno civile, unica forma di capitale convertibile in legittimazione culturale. Per fortuna, le vie dell’engagement sono infinite. Se gli storici dell’arte possono diventare guardiani della Costituzione, come Tomaso Montanari, le icone di Mtv possono fare l’antimafia, come Pif. Se il primo insegue pur sempre il filo rosso della Bellezza, il percorso di Pif assomiglia invece a uno slalom tra vari talenti. Autore Mediaset, inviato delle Iene, vj, videomaker, regista, testimonial, scrittore, un albero genealogico che parte dallo scultore Berthel Thorvaldsen e arriva al regista Maurizio Diliberto, suo padre, un grande amore per Palermo, la brioche al gelato e il maxiprocesso del 1986. In pochi, nel vostro giro di conoscenze, confesseranno che gli piace Pif, ma quasi nessuno dirà che non lo sopporta. Se si volesse descrivere in modo compiuto quell’universo midcult compreso tra lo scisma della sinistra veltronica e il renzismo, bisognerebbe mettere a fuoco Pif, immaginandolo anzitutto come quel che sarebbe diventato Saviano se avesse studiato storytelling alla Holden di Baricco.
Quando sale sul palco della Leopolda, il 27 ottobre del 2013, Pif è un nome che dice molto agli spettatori di Mtv e delle “Iene” e quasi nulla ai lettori riflessivi di Repubblica. Quando scende è già l’idolo delle professoresse di liceo. Alla Leopolda, Pif porta il tema sulla mafia. Magari un problema distante dal Parco delle Cascine, non certo un cavallo di battaglia della rottamazione, ma pur sempre un evergreen. Anzi, dopo tutta questa “Gomorra” sarebbe il caso di riprendere il discorso anche qui, in maniche di camicia arrotolate. Chi meglio di lui? Col suo modo bonario, l’aria di chi passa lì per caso, in un’osmosi perfetta tra la scenografia vintage (le lavagne, i banchi, le biciclette) e il gilet di lana senza maniche da universitario fuori sede della Meglio Gioventù, Pif tira fuori l’iPad e inizia a leggere qualche notizia. Mette in fila dei fatti, fa battute, strizza l’occhio alla platea progressista con passaggi tipo “ragazzi, è evidente che la mafia è riuscita e tenere in pugno questo paese con l’aiuto di qualcun altro”, insomma ci siamo capiti. Ma il tocco da maestro è la cover dell’iPad rossa, come l’agenda di Borsellino, segno indubitabile di contenitore di verità scomode, segreti inconfessabili, denunce. E allora Pif attacca Rosy Bindi che non è adatta alla presidenza dell’Antimafia e attacca Mirello Crisafulli, candidato provinciale del Pd a Enna, che non è presentabile (“non si può rendere omaggio a Pio La Torre e poi candidare questi qui”). Applausi. Ovazione. Tripudio. Insomma, scrolliamoci di dosso la Dc che è ancora in noi e cambieremo per sempre questo paese.
Evviva. Le professoresse si sciolgono. Baricco gongola. Persino il Giornale titola “Il vero rottamatore della Leopolda è Pif”. L’edizione 2013 passerà alla storia per le scarpe animalier indossate da Maria Elena Boschi e la nascita della nuova antimafia. Quella pop. Quella vintage. Quella di Pif. Esattamente un mese dopo, esce nelle sale il suo primo film, “La mafia uccide solo d’estate”. Intendiamoci, non che Pif fosse nuovo al gravame del messaggio, alla propensione alla denuncia, tantomeno ai problemi della Sicilia. La prima puntata del “Testimone”, la trasmissione che lo ha lanciato su Mtv, si intitolava “Addio pizzo”. Pif intervistava dei ragazzi che volevano aprire un pub del commercio equo e solidale, andava in giro per Palermo alla ricerca di consumatori critici e denunciatori di pizzo. Oppure, la puntata “Famiglie arcobaleno”, nella quale Pif scopre che in Italia esistono famiglie in cui la coppia di genitori è composta da due mamme o due papà, oppure “Tumore”, dove bisogna trovare la forza di combattere il cancro. Lo stile è quello di un servizio delle “Iene” ma anche di un video-racconto in prima persona, col montaggio sincopato, gli inserti, la microcamera a mano, i primi piani schiacciati sull’obiettivo e tutta quella roba che dai tempi di “Blair Witch Project” al video-blogging di “Gazebo” non si sa bene perché continuiamo a chiamare “nuovi linguaggi”.
Ecco, un rapido confronto con Diego Bianchi aka “Zoro” – un Pif senza Milano, Mtv e Mediaset – può essere utile. La stessa parabola esemplare fatta di docugiornalismo multimediale, ironia, attenzione al sociale, coscienza politica, gusto pop, più un tema portante per far scattare l’identificazione e infine l’approdo al film come legittimazione culturale. Solo che Diego Bianchi ha scelto i drammi della sinistra romana pensando che per aggiornare “Ecce Bombo” bastasse mescolare la passione per la maggica con i problemi di sezzione, convinto che un mercato rionale di Roma sud avesse ancora qualcosa di “paradigmatico” o “esemplare” agli occhi del resto del paese o quantomeno di Roma nord. Pif invece ha pensato in grande. Soprattutto ha pensato alle scuole, il miglior bacino d’utenza per lo scatto di fascia da cazzaro a guida morale o esempio per i giovani. Come Benigni quando decide di smetterla col corpo sciolto, le capriole, la fica, i filmetti così-così e si butta su Auschwitz come se niente fosse. “La mafia uccide solo d’estate” e “In guerra per amore” sono i film che ogni maestra sognava di proiettare in classe ogni ventitré maggio per l’anniversario della strage di Capaci, così come “La vita è bella” risolve tutto l’indicibile della lezione da fare il giorno della memoria.
Ora, lasciando stare che la Palermo di “La mafia uccide solo d’estate” assomiglia parecchio alla Auschwitz di “La vita è bella”, cioè una specie di fondale da recita scolastica di fine anno, il primo film di Pif un paio di ideuzze ce le aveva pure (il titolo, anzitutto). Il vero capolavoro però è il secondo. Ma andiamo con ordine. Anzitutto, l’investitura. All’epoca, con un servizio di Attilio Bolzoni (già omaggiato da Pif alla Leopolda), Repubblica racconta che “La mafia uccide solo d’estate” ha compiuto il miracolo di riportare al cinema il presidente del Senato, Pietro Grasso: “Non mi capitava di entrare in una sala da quasi un quarto di secolo, l’ultimo film che ho visto era ‘Crimini e misfatti’ di Woody Allen, c’erano sempre troppi palermitani che provavano fastidio a vedere i magistrati seduti vicino a loro, così mi sono abituato a vedere i film a casa”. In effetti, per risolvere il problema bastava andare al Barberini di Roma, dove Grasso e Pif vedono il film insieme e scocca l’amore. “‘La mafia uccide solo d’estate’ è il più bel film sulla mafia che abbia mai visto”. Siccome noi non facciamo i film di mafia, non facciamo “Il Padrino”, “I bravi ragazzi” o “Casinò”, ma pratichiamo un altro genere, ovvero il film di antimafia, Pif introduce la fondamentale, decisiva e questa volta sì, “paradigmatica”, figura del bambino. Col bambino crolla ogni resistenza. Da “Ladri di biciclette” a “La vita è bella” non c’è tema sociale, politico o morale che il cinema italiano non possa “raccontare con gli occhi di un bambino”. Vale la pena citare ancora Repubblica: “Il tuo film va dritto al cuore – dice Grasso appena fuori dal cinema –. Commovente, ribelle, frizzante, leggero, tenero. E soprattutto vero, hai fatto cinema ma hai fatto anche cronaca, hai fatto sentire l’aria che si respirava nella nostra Palermo”, Pif è emozionato anche lui: “Quando succedeva tutto, io andavo alle elementari”.
Tra la Leopolda e il cinema Barberini la trasformazione è compiuta. Il mondo Mediaset perde un giovane, irriverente fantasista, ma le istituzioni acquistano un narratore. Centri di promozione della legalità, licei, scuole, istituti, carceri, ministeri. Il film di Pif, da servire rigorosamente con dibattito, è ovunque. Quando l’Espresso tira fuori una polaroid del 1979 con Riina e Bagarella che giocano coi bambini al mare, i giornali chiedono subito un commento a Pif, praticamente già servito su un piatto d’argento: “Sì, è questa la mafia che uccide anche d’estate”.
E allora Pif non si ferma più. Pif va dalla Bignardi e dice che “se la mia città è stata abbandonata è colpa di Andreotti”, Pif va da Fazio e si commuove parlando di Falcone, Pif si fa i selfie per ricordare Mattarella (Piersanti), presenta i libri di Pietro Grasso e di Bottura, Pif fa Sanremo, le marce di Libera, la spesa con Fabi Fibra, Pif presenta una app antimafia per i giovani, un documentario su Saviano, un altro su Ettore Scola, Pif esce con Miriam Leone, Pif testimone d’Italia a “Otto e mezzo”, Pif fidanzato con Giulia Innocenzi perché un po’ di RaiTre ci vuole sempre, Pif e lo spot della Tim che a qualcuno sembrava un passo falso e invece Tim sponsorizzerà un grande museo dell’antimafia, un “sogno che Pif accarezza da tempo”, così come ora accarezza il progetto di un film sul maxiprocesso, perché “per me la lotta alla mafia è Resistenza e io vedo i giudici antimafia come i partigiani, collego le due cose”. Sbam. Una cosa che non la senti dire più neanche all’assemblea di un liceo okkupato e invece Pif forse ci crede sul serio.
Certo poi si sa, il secondo film è sempre difficile. E mentre la Rai manda in onda la serie tv da “La mafia uccide solo d’estate”, Pif è anche in sala con quello che la critica definisce “un prequel”. Tipo “Le origini del male”. In effetti, dopo due anni in tournée con la fascia tricolore al petto, Pif può rivendicare un ruolo a metà tra il regista e il professore simpatico che fa una lezione di storia, con un film a forma di spiegone sul rapporto America, mafia, Seconda guerra mondiale, Sicilia, nascita della Dc; una robetta così, insomma, sempre naturalmente ad altezza di bambino, che in questo caso è una specie di “Forrest Gump” o “Salvate il soldato Pif”. Se prima c’era aria di Benigni, “In guerra per amore” sembra un film di Ficarra e Picone senza le gag ma con le citazioni da Woody Allen e Robert Capa. Il punto però è un altro. Dietro il candore, i buoni sentimenti, l’impegno, Pif ci offre un formidabile esempio del “metodo Iene” applicato alla Storia. Si prendono un po’ di frasi dal rapporto Scotten (relazione degli Alleati sul problema della mafia in Sicilia stilata nel 1943), ci si costruisce intorno una trama abbastanza esile che ci conduca dritti verso lo svelamento della verità, una verità che tutti si sono affrettati a nascondere ma che invece è lì, nero su bianco, come coi certificati sottolineati che le Iene sbattono in faccia all’indiziato. E se ancora volete girarvi dall’altra parte, il paesino dove è ambientata la vicenda si chiama Crisafulli, come il Mirello Crisafulli della Leopolda. Il cerchio si chiude. L’opera è compatta. Al secondo film, abbiamo già le autocitazioni.
Fuori tempo massimo, quando persino Michele Serra rimpiange la Prima Repubblica, Pif se la prende con la Dc, causa di tutti i mali del paese mancato, come lo chiama Crainz. Perché Pif ha imparato la lezione del veltronismo ma sa anche che un nemico ci vuole sempre e bisogna chiamarlo per nome e cognome, sennò si fa la fine di Walter quando diceva, “il principale esponente dello schieramento a noi avverso”. Perché ogni volta, con le nuove generazioni, bisogna ricominciare da capo. Perché dopo vent’anni di berlusconismo potrebbe farsi strada l’idea che se nel 1948 avessimo messo il paese in mano ai comunisti saremmo diventati come l’Albania. Invece c’è sempre da raccogliere il testimone della Resistenza tradita, del sud abbandonato, C’eravamo tanto amati e Salvatore Giuliano. Bisogna “sensibilizzare” con il cinema o la letteratura, perché la tv alla fin fine non è una cosa seria (ed è incredibile quanti autori si vergognino quasi di dire che scrivono per la tv anche quando sbaragliano lo share, e come non si trovi mai, dico mai, un regista un po’ in colpa per aver fatto un film coi soldi pubblici senza aver incassato un euro).
Pif, insomma, complementare a Saviano. Due incarnazioni autorizzate dell’impegno civile. Due facce del sentimento progressista che fa i conti col degrado morale, con la mafia e la camorra. Pif, l’anima pop, il gusto vintage, “impariamo giocando” e un disperato tentativo di nascondere i tic della superiorità della sinistra. Saviano, l’anima dolente, l’obbligo della denuncia, la condanna, il calvario, Cristo e Pasolini. Entrambi sentono il peso e la responsabilità di parlare ai giovani in un “paese senza memoria” e in un mondo minacciato del neoliberismo selvaggio. “Ai ragazzi dico di evitare gli errori del passato”, dice Pif che se la prende con l’indifferenza degli anni Ottanta, perché solo le stragi del 1992 ci hanno aperto gli occhi – che sarà andata anche così, per carità, ma già nel 1986 Sciascia invitava gli studenti che manifestavano contro la mafia su e giù per l’Italia coi tamburi e le bandiere a passare più tempo sui libri e un po’ meno in piazza. Oggi, invece, ai ragazzi Pif dice che “ciascuno di noi può essere Falcone e Borsellino” e forse in molti, mentre lo ascoltano, pensano più che altro che vorrebbero essere Pif.
Il Foglio sportivo - in corpore sano