Martha Argerich. La Deutsche Grammophon ha appena pubblicato un doppio cd con le primissime registrazioni della pianista argentina (musiche di Mozart, Beethoven, Prokofiev e Ravel) realizzate nel 1960

Martha Argerich, la pasionaria del pianoforte

Mario Leone
A Buenos Aires, dov’è nata, il debutto con il Primo concerto di Beethoven. Aveva otto anni. A tredici si trasferisce a Vienna. Oggi è considerata la più grande pianista vivente. La perfezione tecnica, il tocco e l’infinita tavolozza timbrica, la zingaresca istintività. Con Ravel in piazza Duomo a Milano.

L’applauso del pubblico accoglie i due musicisti argentini in tournée mondiale con il repertorio per pianoforte a quattro mani e due pianoforti. Daniel Barenboim “cerca” il pubblico. Martha Argerich, dopo un fugace cenno di ringraziamento, si dirige subito al pianoforte. Seduti l’una accanto all’altro, Martha sussurra all’orecchio di Daniel. Lui risponde. La telecamera insiste sui loro volti, stacca e cattura le mani dei due già pronte sulla tastiera. Barenboim accarezza quella della Argerich. Un gesto discreto, d’affetto e di rassicurazione, prima di suonare. Lei, la pianista più grande al mondo, la leonessa della tastiera, a settantacinque anni appena compiuti ha raggiunto una fama da rockstar. La Lego le ha dedicato un pezzo con relativo pianoforte da assemblare.

 

I primi ruggiti nel 1949. Teatro Astral di Buenos Aires. Sul selciato, alcuni bambini giocano al lancio del ferro di cavallo, nel frastuono del traffico della caotica capitale argentina che qualche anno dopo ispirerà il “Libertango” di Astor Piazzolla. Sul palco, una ragazzina di appena otto anni sta per debuttare con il Concerto n. 1 in do maggiore di Ludwig van Beethoven. Martha è minuta, intimidita. Non voglio suonare, avrà pensato. Non c’è tempo di pensare quando Dio decide di donarti qualcosa che ti fa assomigliare un po’ più a Lui. Allora corre al pianoforte. Ecco la musica. Un successo clamoroso. Tutti intuiscono di stare al cospetto di una pianista consegnata dal cielo già bella e pronta per stupire. Malgrado la tenera età, Martha macina concerti in tutta l’America latina senza tralasciare lo studio dello strumento che le cancellerà completamente l’infanzia. Un talento così puro necessita di grandi maestri. Sino a dodici anni, la pianista è seguita dall’italo-argentino Vincenzo Scaramuzza. Una formazione solida e decisiva, capace di farle superare con naturalezza tutte le difficoltà dello strumento, per quanto i metodi “duri” del primo maestro incidano pesantemente anche sulla sua psiche.

 

Martha studia e fa concerti. Il pianoforte è la compagnia di ogni giorno. Sorprende la facilità e la rapidità con le quali legge e impara le partiture, soprattutto se son quelle di Sergej Prokofiev, Béla Bartók o Maurice Ravel. A tratti ciò ha dell’incredibile. A tredici anni Martha può sbarcare in Europa. Per diventare storia, deve confrontarsi con la storia: la storia della musica che nel Vecchio continente è cresciuta e si è sviluppata. Tutta la famiglia si trasferisce a Vienna dove l’adolescente incontra Friederich Gulda. L’eclettico pianista viennese odia l’insegnamento perché “i ragazzi sono ossessionati dalla tecnica e non dalla musica”. Martha Argerich fa eccezione. Folgorato dal talento, la prende sotto la sua protezione. Tra i due nasce una complicità fortissima. Martha s’innamora del suo maestro, attratta dal carisma magnetico, dalla forza primordiale che emana il suo modo di fare musica e di intendere la vita. Ogni esecuzione in casa è registrata, riascoltata e giudicata insieme. Gulda riesce a penetrare l’animo della Argerich, ne valorizza il precoce talento. Il loro rapporto sarà quotidiano per un anno e mezzo finché lo stesso Gulda la invita ad andare via: “Con un maestro non si può restare per più di due anni”.

 

D’altra parte, Martha aveva inizialmente assecondato l’indicazione del maestro, fermamente convinto che lei dovesse suonare la musica jazz, ma con il tempo aveva capito che quello non era il suo alveo, riprendendo il repertorio classico. “Trovava orribile che io avessi lasciato la musica jazz – ricorderà la pianista molti anni dopo – ma ormai era troppo tardi”.

 

E’ il 1957 e Martha s’iscrive a due concorsi: il Ferruccio Busoni di Bolzano e il Concorso pianistico di Ginevra. Mors tua vita mea è un po’ il clima di queste rassegne di grandissimi talenti. Ragazzi, poco più che bambini, che hanno una scintilla divina nelle mani. Ragazzi, forse troppo piccoli per reggere il peso emotivo. Martha sbancherà letteralmente il Busoni e appena dieci giorni dopo anche il Concorso di Ginevra. Questa consacrazione farà moltiplicare il numero di concerti, le interviste e la notorietà. Lo stesso anno registra la Toccata op. 11 di Prokofiev e la Sesta Rapsodia ungherese di Liszt, effettuate dal vivo proprio a Bolzano e a Ginevra e tuttora esecuzioni insuperate per perfezione tecnica, plasticità e veemenza. Nel 1960 registra per la Radio della Germania del nord la Sonata K 576 di Mozart. Un tributo al maestro Gulda che l’aveva introdotta al genio salisburghese. Il Mozart della Argerich (da pochi giorni pubblicato da Deutsche Grammophon per i settantacinque anni della pianista) è entusiasmante, selvaggio, quasi primordiale. La giovane Martha è una musicista completa, non semplicemente un’atleta della tastiera. Il suono scintillante, la capacità di dare voce alle parti interne e la straordinaria abilità di modificare repentinamente timbri e dinamiche si coniugano con un’interpretazione ben definita, che ci restituisce un Mozart non sentimentale e zuccheroso. Di diverso parere il pianista e didatta Piero Rattalino che, in esclusiva per il Foglio, definisce le esecuzioni mozartiane della giovane Argerich poco mature e approfondite e comunque non paragonabili, come profondità di pensiero e penetrazione della partitura, a quelle degli anni Novanta.

 

Tutto sembra perfetto. Non per Martha Argerich. Decide di non esibirsi più. Lo stress dei concorsi, l’improvvisa fama, le richieste pressanti e le aspettative inumane. La consistenza della vita non è solo nei trionfi ma anche negli spazi di libertà. Dice stop. Tre anni di assoluto silenzio. Tre anni senza un solo concerto. Una scelta del genere, fatta in un momento cruciale per la carriera di un pianista, avrebbe stroncato chiunque. “Amo suonare il pianoforte. Ma non mi piace essere una pianista. Davvero non voglio esserlo, anche se è la sola cosa che più o meno so fare”. Sembra di sentire qui Andre Agassi che si racconta nell’autobiografia scritta con J. R. Moehringer. Il dramma che li accomuna è identico: un talento immane per un mestiere che non amano praticare. Il pianista come il tennista è costantemente in bilico. E’ questione di millimetri. Di qui la perfezione. Un millimetro più in là, il baratro.

 

Un imprevisto è la sola salvezza. Nella vita di Martha Argerich quell’imprevisto ha un volto, degli occhi e delle braccia che ti accolgono: Stefan Ashkenazy. Lo ricorda ancora Piero Rattalino: “Stefan Ashkenazy accoglie in casa una ragazza spenta a cui il talento precocissimo, le ambizioni della mamma e una impreparazione alla vita concertistica avevano rubato l’adolescenza. Ashkenazy ricostruisce la ragazza prima di tutto psicologicamente”. Martha è più cosciente di sé e decide di ritornare in pista. Ma una come lei non può farlo in maniera banale. S’iscrive al Concorso Chopin di Varsavia. Il concorso dei concorsi. Quello in cui difficilmente vince un artista non polacco. Figuriamoci una donna argentina. Martha ha ventiquattro anni e il suo pianismo si abbatte su Varsavia, facendole vincere il concorso e il premio speciale della Radio Polacca per la migliore esecuzione di Mazurche e Valzer. Un’argentina che suona Chopin meglio dei polacchi. Nessuno ha potuto resistere alle sue interpretazioni connotate da un piglio leggero e fascinoso, uno stile esecutivo rapsodico e una sincera passione romantica.

 

Ma cosa rende unico il modo di suonare della Argerich? L’estrema facilità con cui la tecnica si manifesta, sempre legata a un fatto musicale e mai a un esercizio ginnico, la costante capacità comunicativa. In lei si palesa quella teoria dei contrari di Eraclito che trova però un ordine nell’interpretazione. Non stupisce solo per la perfezione tecnica o per il tocco generatore di un’infinita tavolozza timbrica. Martha è un condensato di magnetismo, genialità, civetteria. Il senso poetico in lei raggiunge vette mai toccate (o toccate da un certo Vladimir Horowitz) per non parlare della zingaresca istintività che le permette di non dare nulla per scontato. Ogni volta è una scoperta nuova e ogni esecuzione è una prima assoluta. “Martha è unica e irripetibile”, dice al Foglio Riccardo Chailly, direttore d’orchestra e direttore musicale del Teatro alla Scala di Milano. “E’ un’artista intelligente, poliedrica, senza preconcetti che crede, come me, allo spirito che si crea nel far musica insieme. Il nostro rapporto è iniziato negli anni Ottanta con i concerti a Berlino con la Radio Symphony Orchestra. Meravigliosi il suo Primo di Beethoven, il Terzo di Prokofiev o il Concerto in sol di Ravel. e ancora ricordo la bellissima esperienza con il Terzo concerto di Rachmaninov, che Martha ha eseguito in quell’occasione per l’ultima volta. Ancora oggi quell’interpretazione è di riferimento per l’assoluta originalità”. Dal punto di vista tecnico, resta inspiegabile la velocità e chiarezza con cui esegue i passaggi in ottave (guardare e ascoltare il finale del Primo concerto per pianoforte e orchestra di Cˇ ajkovskij o il Primo concerto di Liszt). Anche le note ribattute sono inumane per uguaglianza, velocità e tenuta ritmica. Un’artista che si pone limiti da superare con vigore, gioia e piglio eroico.

 

Lo stesso eroismo che le ha permesso di affrontare la malattia. Un melanoma maligno che sembrava vinto con le terapie ma dopo qualche anno si ripresenta con metastasi ai linfonodi e ai polmoni che dovranno essere curati con l’intervento chirurgico. Nessun annuncio. Un gran silenzio. E quando le voci sul suo stato di salute si fanno contrastanti, Martha ritorna nella “sua casa”: a New York, in una Carnegie Hall stracolma, suona per raccogliere fondi per la ricerca contro il cancro. Suona per dire a tutti che è tornata. Suona per dire a tutto il mondo che è nata per suonare il pianoforte. E il mondo musicale riconosce e venera il suo talento. Ma il mondo di Martha funziona con altre regole. Tre matrimoni e tre figli. Relazioni complicate. Si definisce “per sona incapace di amare”. I meandri di una mente geniale sono inaccessibili ai comuni mortali. Gli spettri della paura accompagnano i suoi recital. Nei camerini prima di ogni concerto si muove vorticosa, dicendo che stasera non è la sera giusta per suonare. “Non voglio suonare, non voglio suonare”. Poi si apre la porta, si lancia sul palco alla disperata ricerca del pianoforte, quasi una bombola d’ossigeno che le permette (non sa come) di estraniarsi da tutto. Quest’ansia per il recital la porta ad annullare date su date. “La solitudine del pianista è terribile; si sta così tanto tempo a studiare da soli che esserlo anche in concerto non posso più sopportarlo”. La pianista non tollera più quel maledetto palco vuoto con il solo pianoforte. Il buio in sala e un raggio di luce gialla che ti cade perpendicolare sulle mani. Sarà negli anni Ottanta che deciderà di non suonare mai più da sola. Così sarà. Concerti di musica da camera, concerti con le orchestre. Mai più sola. E fuori dalle sale da concerto, una serie infinita di gente che vorrebbe studiare con lei, farsi ascoltare. Lei prova ad accontentare tutti cercando anche di creare per i suoi alunni migliori spazi per esibirsi e farsi conoscere dal grande pubblico. Lo stesso pubblico trepidante che l’attende a piazza Duomo a Milano il 12 giugno per la manifestazione “Concerto per Milano”. “Un appuntamento importante per la città – dice ancora Chailly – dove riscoprire capolavori e ospitare grandi solisti”.

 

Martha Argerich suonerà il Concerto in sol di Maurice Ravel per pianoforte e orchestra. Uno dei suoi cavalli di battaglia. Uno di quei concerti nei quali la Argerich si sente a suo agio grazie alle commistioni tra jazz e classica che permeano la partitura. Prima di entrare in scena dirà che non è la serata giusta per suonare. Non voglio suonare. Poi le apriranno una porta e non ci sarà tempo di pensare. Martha si lancerà verso il pianoforte. Un fugace cenno di saluto prima di iniziare. Nessun gesto d’affetto se non lo sguardo rassicurante e materno della “bela Madunina” che l’ascolta dall’alto.

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