Il direttore del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, Valerij Gergiev, accusato di essere “il musicista di Putin”

Lo zar del podio

Giulio Meotti
E’ amico di Putin e ha suonato Bach a Palmira. Ovunque dirige è contestato. Valerij Gergiev, il fuoco sacro di un mistico russo. A Londra gli hanno dato di “omofobo” per aver detto: “Io rispetto i princìpi della vita che sono importanti per il popolo russo”.

Per un russo, si sa, non c’è mai un momento sbagliato per un concerto di musica classica. E per Valerij Gergiev non c’era luogo migliore per celebrare la musica delle rovine di Palmira, la perla del deserto siriano conquistata dall’Isis e ripresa di recente dall’esercito di Damasco con l’aiuto russo.

 

Gergiev, direttore del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo e della sua orchestra, da vent’anni con pieni poteri, ha scelto musiche che scatenassero emozioni ottimistiche dallo stesso palco su cui i militanti dello Stato islamico giravano i video delle loro esecuzioni di massa. “Protestiamo contro la barbarie che ha distrutto enormi monumenti alla cultura mondiale”, ha dichiarato il direttore d’orchestra. “Protestiamo contro le esecuzioni di persone, qui su questo palco”.  Al rientro a Mosca, Valerij Gergiev ha ricevuto la medaglia “Per la liberazione di Palmira”, assieme ai musicisti dell’orchestra. La cerimonia di premiazione si è tenuta presso la Sala grande del Conservatorio di Mosca alla presenza di Vladimir Putin.

 

Suonare Bach a Palmira aveva qualcosa di sublime e inquietante. Un classico momento à la Gergiev, con il proscenio della storia e la musica che si fondevano scatenando passioni (e polemiche) furiose. In Gergiev si dice che bruci il fuoco sacro di un mistico russo e la barba che gli incornicia il volto ne rivela l’origine caucasica. Portamento solenne, voce profonda, il musicista negli anni Novanta era indicato da Norman Lebrecht, autore di “The Maestro Myth”, come il successore ideale di Herbert von Karajan e Leonard Bernstein. Quando dirige, Gergiev è alla ricerca di un legame intenso tra la musica e il pubblico. Pare che si annoi quando le cose sono troppo pianificate.

 

Il ministro degli Esteri della Gran Bretagna, Philip Hammond, ha condannato il concerto di Gergiev in Siria come “un tentativo di cattivo gusto di distogliere l’attenzione” dalla sofferenza dei siriani, e ha ricordato che un attacco aereo su un campo profughi quello stesso giorno aveva ucciso ventotto persone. Ma alle critiche Gergiev è abituato. A una première della “Iolanta” di Cˇaikovskij al Metropolitan, tempio newyorchese dell’opera, il direttore russo è stato accolto al grido di “Gergiev è un omofobo”. “In Russia facciamo tutto il possibile per proteggere i bambini”, aveva detto Gergiev a difesa della legge di Putin contro le adozioni alle coppie omosessuali. E ancora: “Io rispetto i princìpi della vita che sono estremamente importanti per il popolo russo”.

 


Il direttore Valerij Gregiev con il presidente russo al suo primo mandato, al Cremlino nel 2001


 

Dovunque va a suonare, il direttore artistico e generale del Mariinskij viene ormai puntualmente contestato: a Londra, al Barbican Centre e a Trafalgar Square, dove un suo concerto è stato interrotto dalle urla di contestatori nel pubblico; a New York, dove attivisti penetrati nella Carnegie Hall gli hanno detto “your silence is killing Russian gays” (il tuo silenzio uccide i gay russi). Gli è anche stato impedito di partecipare all’ultima edizione del Festival di musica sulla Saar in Germania (pressioni polacche, pare). E quando è stata annunciata la sua direzione della Filarmonica di Monaco al posto di Lorin Maazel, il boicottaggio contro la sua nomina è stato a dir poco intenso. Contro Gergiev si sono schierati pezzi da novanta della musica tedesca, come il sovrintendente dell’Opera di stato bavarese Nikolaus Bachler. “Penso che il fondamento dell’arte sia la verità e l’umanita”, ha detto al quotidiano Münchner Merkur. “Si capisce pertanto che un artista, se non altro per interesse proprio, non può tacere davanti all’inumanità e alla violazione dei diritti umani”. Analogo il giudizio del direttore dello Stadttheater, Josef Koepplinger: “Proprio guardando alla storia passata, al XX secolo con tutto il suo terrore e le sue aberrazioni, anche negli ultimi dieci anni, dovrebbe bastare a una persona che ragioni per dire di fronte a certe cose: no, così no”.

 

Arthur Lubow sul New York Times ha definito Gergiev “il lealista”. Nel 2009, davanti a un pubblico in lacrime di gente comune e soldati russi in piedi sui carri armati, Gergiev ha diretto un concerto a Tskhinvali, la capitale devastata dell’Ossezia del sud in Georgia. “Se non fosse stato per l’aiuto dell’esercito russo qui ci sarebbero migliaia e migliaia di vittime”, disse in quella occasione. “Sono molto grato come osseta al mio grande paese, la Russia, per questo aiuto”. Gergiev scelse la sinfonia “Leningrado” di Shostakovich, composta durante l’assedio nazista e diventata un emblema mondiale della resistenza russa durante i giorni più bui della Seconda guerra mondiale.

 

Naturalmente, non tutti condividono questi suoi “concerti politici”. Anche coloro che hanno criticato l’avventurismo della Georgia si sono chiesti se il musicista russo non avesse perso il senso della misura. Gergiev ha preso le difese di Putin anche nel caso Pussy Riot a Mosca, condannate a due anni di carcere per la “punk preghiera” nella cattedrale della capitale russa intitolata a Cristo Salvatore. “Non penso che questo abbia qualcosa a che fare con la libertà artistica”, ha detto Gergiev. “Perché andare alla Cattedrale di Cristo a fare una dichiarazione politica? Perchè con urla e balli? Non è necessario andare in un luogo che è considerato sacro da molte persone”.

 

Dopo il massacro del 2004 nella scuola di Beslan, in Ossezia del nord, Gergiev ha diretto alcuni concerti in memoria delle vittime. “Mi sento un po’ colpevole, non abbiamo fatto abbastanza per proteggere la vita innocente”, il suo commento alla carneficina. Il giorno della strage, era sul podio della Filarmonica di Vienna. Tormentato dal dolore e dalla paura per i propri cari, pensò di rinunciare per tornare a casa. Ma alla fine scelse di dirigere: in programma c’erano il Concerto in re minore di Rachmaninov e la Sesta sinfonia di Cˇaikovskij. Quella notte, la televisione austriaca mostrò Gergiev condurre in lacrime la “Patetica”. “Il più terribile concerto della mia vita”, avrebbe detto prima di prendere un volo per Mosca e andare sulla televisione nazionale, per fare appello al popolo osseto affinché mantenesse la calma. “Non ci sono attacchi contro i musulmani. Gli unici che beneficeranno della violenza sono i terroristi… La violenza non ci resituirà i nostri bambini”.

 

Lui e Putin sono della stessa generazione, prodotti della stessa nomenklatura. Il padre, un ufficiale dell’Armata Rossa, morì d’infarto quando Gergiev aveva quattordici anni. Fino a quarantasei anni Gergiev ha professato di non avere il tempo per una vita privata e di vivere ancora con la madre. Poi nel 1999 si è sposato con Natalia Dzebisova, una ragazza osseta molto più giovane di lui e da cui ha avuto tre figli. Tarchiato e atletico, sempre con una barba di tre giorni, con un carisma fisico un po’ rozzo e una voce roca spesso appena udibile, Gergiev è stato descritto come “diabolico”.

 

Lo zio era il progettista di carri armati preferito da Stalin. A differenza di Putin, Gergiev non è mai stato un membro del Partito comunista, ma lo accomuna al presidente russo l’enfasi sul ruolo della cultura in una società sana. “Quando Putin è diventato presidente”, ha detto Gergiev, “non vi era nessun governo, solo la corruzione. Quando Putin era primo ministro nel 1999, metà del paese era sicuro che la Russia si sarebbe disintegrata. Putin ha fermato quel processo”.

 

 

Anche per questo Gergiev è una figura venerata in Russia, perché lui è rimasto in un momento di crollo quando tutti i grandi musicisti andavano in occidente in cerca di glorie e più alti compensi. I due, Gergiev e Putin, sono amici dal 1992, quando il maestro godeva già di una strepitosa fama internazionale come direttore d’orchestra e guida artistica del Kirov di San Pietroburgo e Putin era solo il vicesindaco della città. Allora era il musicista a essere noto, mentre Putin non lo conosceva nessuno. “Non conosco nessun altro caso nella storia della musica, tranne forse quello di Richard Wagner e re Ludwig di Baviera, in cui un musicista è stato così vicino a un sovrano potente”, ha scritto Richard Morrison, critico musicale del Times di Londra.

 

Il patriottismo di Gergiev scorre in profondità. Quando nel 1988 è diventato direttore artistico del Kirov (poi ribattezzato Mariinskij), Gergiev ha fatto sua la missione di ripristinare le opere di grandi compositori russi che sotto il regime sovietico avevano sofferto perché non in linea con le direttive del regime.

 

Era stato Herbert von Karajan, direttore a vita della Filarmonica di Berlino, a scoprire il suo talento. Karajan scrisse personalmente al ministro della Cultura sovietico per chiedere come assistente a Berlino ovest quel giovane osseto che a ventidue anni era già direttore dell’Opera di Erevan, la capitale dell’Armenia alle pendici del monte Ararat. Era il 1976, in Urss erano gli anni della restaurazione brezneviana. Gergiev non scelse di rifugiarsi in occidente, come avevano fatto altri artisti russi. Scelse di tornare in Russia.

 

Anni dopo, mentre sotto Boris Eltsin le istituzioni si sgretolavano e il paese era al collasso, mentre il Bolshoi di Mosca sfioriva e perdeva prestigio e talenti, il Mariinskij aumentava di peso. Grazie soltanto a Gergiev. Sotto la sua guida, il Mariinskij è diventato una delle più grandi istituzioni musicali del mondo, offrendo un enorme programma di opera, balletto e musica orchestrale, sia in patria che all’estero. Un uomo che soffre di una quasi patologica mancanza di puntualità, che come dice sua sorella “non può cucinare, lavare i vestiti o fare qualsiasi tipo di lavoro domestico pratico”, ha sotto la propria cura una compagnia di decine di cantanti, ballerini, musicisti, membri del coro e centinaia di tecnici e personale amministrativo, tutti interamente dipendenti dalla sua capacità. Basta dare un’occhiata agli sponsor che hanno sostenuto il Mariinskij e le sue varie fondazioni: Bombardier, Gazprom, Banca Vtb e Dassault, la lista è prestigiosa. C’è chi elargisce laute donazioni al teatro in cambio soltanto di un incontro, che il musicista può favorire, con Putin.

 

Gergiev solitamente non usa la bacchetta, sono sufficienti le mani dal pollice lunghissimo, e la musica non sembra nascere dall’orchestra, ma dalla sua danza. Un tipico osseto, dal nome della piccola terra sul Caucaso dove gli alani si rifugiarono, si fecero cristiani e difesero la propria identità dai mongoli e dalle bellicose etnie vicine. Gergiev ha portato il suo repertorio russo in tutti i teatri più grandi e in tutte le sale da concerto più famose del mondo. “Una delle cose che molte persone presumono su Gergiev è che lui sia interessato alla gratificazione e alla fama”, ha detto la violoncellista Noel Bradshaw. “Alcuni grandi direttori con cui ho lavorato lo sono. Ora che Leonard Bernstein è morto, posso dire che lui era interessato alla fama. Ma non Gergiev. Sì, vuole essere influente, vuole un ruolo nella vita pubblica, così da poter fare le cose a cui tiene. Ma non per essere famoso o adulato. In realtà, è l’ultima cosa a cui è interessato”.

 

Con i costanti richiami a Sˇostakovicˇ, Mravinskij e Furtwängler, Gergiev ha un legame profondo con le tribolazioni epiche del XX secolo rispetto ai suoi coetanei, come Simon Rattle. Gareth Davies, il flautista dell’orchestra, l’ha messa così: “Gergiev ha questo incredibile senso della propria terra e della sofferenza”. “La Russia ha una propria visione per il suo futuro e penso che sarebbe del tutto sbagliato ignorarlo per i paesi occidentali”, sostiene il direttore del Mariinskij e della Filarmonica di Monaco.
Alex Ross, critico musicale del New Yorker, riferendosi alle ore piccole che Gergiev fa in teatro e al suo carattere notturno, lo ha definito “il maestro di mezzanotte”.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.