Salis, davanti all'ambasciata di Ungheria a Roma poster di Ilaria della street artist Laika (Ansa)

Due gogne, due misure. Il caso Ilaria Salis e la giustizia in Italia

Claudio Cerasa

Non si può essere  contro la gogna in Ungheria e a favore in Italia. Non si può essere per le garanzie da noi e per la barbarie a Budapest. Non si può offendere una libertà, diceva Filippo Turati, senza offendere tutte le altre. Ipocrisia, no, grazie

Ci sono buone ragioni per credere che l’attenzione mediatica e politica che si è andata a creare intorno al caso di Ilaria Salis possa aiutare l’attivista italiana, se così si può definire, ad avere un processo che non sia totalmente incompatibile con lo stato di diritto europeo. L’immagine della ragazza di Monza con il guinzaglio, le catene e i ceppi ai polsi ha suscitato emozioni, ha stimolato ragionamenti diversi e ha dimostrato però ancora una volta che il tema delle carceri, dei processi e della giustizia giusta sono questioni che appassionano l’opinione pubblica italiana più per questioni legate alle proprie appartenenze politiche che per questioni legate alla propria aderenza ai valori non negoziabili dello stato di diritto. Per i nemici di Meloni, il caso di Ilaria Salis è diventato rilevante quasi unicamente per via della vicinanza di Viktor Orbán alla destra meloniana. E per gli amici di Orbán, dall’altra parte, il caso Salis è diventato rilevante non tanto per tutto ciò che rappresenta del modo in cui funziona la giustizia in un paese europeo, quanto per tutto ciò che rappresenta per la sinistra il profilo gruppettaro della stessa imputata.

    

Con una battuta efficace, il bravo parlamentare di Azione Enrico Costa ha detto che il Pd è a favore della presunzione di innocenza solo quando questa riguarda gli imputati che si trovano in Ungheria, ed è difficile dargli torto. Ma allo stesso modo il caso Salis ha messo in luce l’idea che un pezzo di centrodestra ha sul tema della tutela dei diritti di un carcerato. Quei diritti, per Salvini & Co, valgono solo quando gli imputati rientrano all’interno delle categorie apprezzate dai parlamentari della Lega, e quando vi è un leader che si apprezza (Orbán) che tratta come un animale un imputato che non si sopporta (Salis) ogni principio garantista può andare a farsi benedire.

 

Andrea Crippa, degno vice di Matteo Salvini, ha detto di augurarsi che Salis sia in grado di “dimostrare la propria innocenza”, capovolgendo e stravolgendo e violentando ogni principio minimo della cultura garantista, in base alla quale ogni indagato e imputato è fino a prova contraria innocente, e non colpevole. E buona parte degli esponenti del governo si è rifiutata di parlare del caso Salis per ricordare che il problema di questa storia non ha a che fare solo con le immagini dei ceppi ai polsi ma ha a che fare con un’idea macabra di cui quelle immagini sono lo specchio, non un’eccezione: un disegno di democrazia illiberale esplicito, che umilia le minoranze, uccide il pluralismo, limita gli spazi dell’opposizione, se ne fotte dei diritti e alimenta con tutta la propria forza un modello di democrazia illiberale che cozza con le norme europee, il diritto internazionale e i princìpi minimi dello stato di diritto (esiste una direttiva Ue che stabilisce che in tribunale non si utilizzino misure di coercizione fisica). Il caso Salis, al di là della vicenda personale della ragazza monzese, è interessante anche per queste ragioni e per alcune ipocrisie che ha permesso di svelare.

 

Una prima ipocrisia è quella che riguarda l’attenzione al tema della detenzione, delle carceri, delle condizioni di un indagato. Costa gigioneggia quando dice che il centrosinistra considera la presunzione di innocenza cruciale solo quando si parla di detenuti in Ungheria ma centra un punto. Se si considera prioritario fare di tutto e di più affinché un indagato non venga umiliato durante il processo, occorrerebbe essere coerenti e considerare una vergogna anche un’altra forma di costrizione non meno violenta rispetto all’esposizione dei ceppi: la gogna. Non si può essere contro l’umiliazione della Salis e a favore dello sputtanamento degli indagati in Italia. Non si può essere contro l’umiliazione degli italiani maltrattati nei tribunali ungheresi e a favore dell’umiliazione degli italiani e dei non italiani maltrattati nei tribunali del nostro paese attraverso l’utilizzo delle catene della gogna. E non si può neppure trasformare il carcere nel riflesso della qualità di una democrazia senza chiedersi anche se il tema dello stato di diritto nelle carceri sia un fine o un mezzo. Se è cioè un diritto da tutelare sempre o se è un diritto da tutelare solo perché aiuta a portare avanti alcune battaglie politiche.

 

La scorsa settimana il nostro Maurizio Crippa ha ricordato che coloro che giustamente si indignano per le condizioni della Salis dovrebbero indignarsi anche  per la condizione dei ragazzi non italiani detenuti e impiccati in un paese come l’Iran, che nel 2023 ha giustiziato 2,19 persone al giorno con metodi da far rimpiangere la giustizia ungherese, e il ragionamento non è spia di un benaltrismo – e allora l’Iran, come un tempo era “e allora il Pd” – ma è l’essenza di un approccio politico e culturale che vale per tutti. Non si può essere a favore delle garanzie e delle libertà senza denunciare le oscenità di un paese come l’Ungheria, e più si mostrerà timidezza nel denunciare quei metodi, più si contribuirà ad alimentare l’impressione che quel modello sia un riferimento, e allo stesso tempo non si può denunciare la mancanza di diritti per gli imputati in Ungheria senza fare lo stesso quando i diritti da difendere riguardano gli imputati e i condannati che sono sotto i nostri occhi.

 

“L’Italia – ha detto al Foglio Luigi Manconi – non può dare lezioni, è vero, ma deve darle all’Ungheria e a sé stessa: io penso che si possano ‘dare lezioni’ nel nome della condivisione della carta europea dei diritti e della adesione ai princìpi dello stato di diritto, basta non essere ipocriti”. Manconi ha ragione. Ma manca un punto. Le libertà, diceva Filippo Turati, sono tutte solidali: non se ne può offendere una senza offendere tutte le altre. Il caso Salis ci ha segnalato che le forze politiche che si ricordano quanto le libertà siano solidali l’una con l’altra si contano sulle dita di una mano. Non si può essere contro la gogna in Ungheria e a favore della gogna in Italia. Non si può essere per le garanzie in Italia e per la barbarie in Ungheria. E chi sceglie di non difendere turatianamente lo stato di diritto, semplicemente ha scelto di usarlo come un’arma per difendere le proprie idee e non la nostra libertà.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.