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L'analisi

Il database della democrazia

Sabino Cassese

Tutto vero quello che pensiamo dell’Italia e dei suoi problemi? Per capire chi siamo e come stiamo cambiando, ci può aiutare la statistica. Le risposte dell'Istat sul rapporto tra società e istituzioni, con qualche domanda in sospeso

Se ci si ammala nel Sud, ci si va a curare nel Nord. È una manifestazione di sfiducia dei meridionali nei confronti della sanità, che essi stessi gestiscono, attraverso le regioni? È anche un segno del fatto che l’Italia non è ancora unita, tanto che i diritti che spettano a un terzo della popolazione (quanti sono gli abitanti del Sud), hanno ancora bisogno di essere garantiti fissando a livello nazionale i livelli essenziali delle prestazioni? Si fa un gran discutere di autonomia differenziata, un tema che spaventa perché potrebbe rappresentare la “secessione dei ricchi”. È il riconoscimento di una grande distanza tra due parti della popolazione italiana, una distanza che potrebbe aumentare assegnando maggiori poteri autonomia alle regioni – quelle del Nord come quelle del Sud – che lo richiedano? Il tasso di realizzazione degli investimenti previsti dalle leggi oscilla tra il 10 e il 20 per cento: vuol dire che tra il 90 e l’80 dei programmi del legislatore non vengono realizzati, o vengono realizzati con grave ritardo. Dobbiamo preoccuparci di questa scarsa capacità dello stato di attuare gli obiettivi indicati dai rappresentanti del popolo? Questi tre esempi sono segni di divari territoriali, della distanza tra stato e società, della “incapacità” dello stato, arcigno invece che mite e compassionevole? Ci dobbiamo preoccupare di questi indicatori? Sono i segni di una malattia grave, che richiede il ricovero in ospedale, o sono indicatori di ferite che, ben curate, possono guarire?

 

Questi problemi fanno parte di una cultura diffusa, preoccupano l’opinione pubblica, sono oggetto degli scambi quotidiani nel mondo della politica. Ma l’ambito delle nostre conoscenze, quello che sappiamo dei nostri poteri pubblici, è definito da quello che vediamo e da quello che, per nostro conto, vedono i media, radio televisione e rete. Tutti questi occhi, quelli nostri, quelli della radio, quelli della televisione, quelli della rete, sono fermi sull’episodico e sul quotidiano e non costituiscono una base sufficientemente robusta per orientarci, consentirci di valutare, permetterci di trarre dalle valutazioni delle conclusioni (ad esempio, un voto). 

  

L’Istituto di statistica

Eppure, sono tanti gli organismi, le fondazioni, gli enti, pubblici o privati, nazionali e sovranazionali, che raccolgono dati, producono rapporti e ricerche. Uno di questi è l’Istat, l’istituto di statistica, alla cui nascita contribuirono, nel 1926, due tecnici, un accademico, Alberto de Stefani, e un imprenditore, Giuseppe Volpi, sostituendolo alla divisione di statistica di un ministero. L’Istituto centrale di statistica, ispirato al criterio, proprio del fascismo, del culto dello stato e della centralizzazione, poi, nel 1988-89, è cambiato, mutando persino nome: è diventato Istituto nazionale di statistica, vertice di una rete che si chiama Sistema statistico nazionale, che include anche gli uffici statistici di regioni, province, comuni, camere di commercio, enti pubblici, prefetture, e che ora fa parte anche del Sistema statistico europeo. Ho partecipato alla preparazione e alla redazione della normativa del 1989, perché per un quarto di secolo ho studiato l’ordinamento statistico e per un decennio ho fatto parte dell’organo di vertice dell’Istat, e ricordo di avere suggerito di assumere come esempio il Servizio sanitario nazionale, un servizio a rete, per organizzare su base nazionale anche la raccolta ed elaborazione delle statistiche.

  

L’Istat pubblica puntualmente un annuario. Con il recentissimo annuario statistico 2023 voglio dare inizio a una serie di articoli, di cui questo è il primo, per chiedermi se l’immagine del nostro Paese e dei suoi problemi, che i nostri occhi e i media ci trasmettono, sia quella giusta: se sia confermata dai dati statistici o non finisca per condurci dalla parte sbagliata, facendoci percepire la nostra società, il nostro stato e i loro reciproci rapporti in modo errato. Il programma è di chiedere un aiuto ai dati all’Istat (e poi ad altri rapporti, ben sapendo che anche questi vanno interpretati e vagliati, che la fonte deve essere affidabile, la scelta dei dati rigorosa, l’interpretazione corretta) per capire chi siamo e come stiamo cambiando, e come sta mutando il mondo intorno a noi, per cercare di rispondere a domande che ci poniamo tutti i giorni, ma non fermandoci soltanto sul quel che accade, tenendo anche conto del “senso delle cose”, cioè della loro direzione di marcia.

   

Quanto distanti sono le istituzioni dalla società?

Le prime domande: quanto distanti sono le istituzioni dalla società? In che modo si riflette la società nelle istituzioni? Quanto le istituzioni sono rappresentative della società? L’annuario statistico del 2023 contiene un  capitolo riguardante le istituzioni pubbliche. Esaminiamolo. Le istituzioni pubbliche sono 12.780, con 104.005 unità locali. Vi lavorano 3.601.709 persone (di cui l’11,7 per cento a tempo determinato e il 5,7 per cento non dipendenti). 40.000 sono le unità locali-scuole pubbliche, 104 le province e le città metropolitane, 7.903 i comuni, 594 le comunità montane, 191 le aziende sanitarie ed enti del settore sanitario, 70 le università pubbliche, 2.973 gli enti pubblici. I dipendenti pubblici sono poco meno del 5 per cento degli abitanti (mentre – come apprendiamo da altra fonte – in Francia rappresentano l’8,4 e nel Regno Unito il 7,8 per cento dei residenti). L’incremento annuo dei dipendenti pubblici oscilla intorno all’1 per cento.  Alla diminuzione dei dipendenti pubblici a tempo indeterminato dell’ultimo decennio ha corrisposto un (minore) aumento dei dipendenti a tempo determinato

  

Già da questi dati si comprende che i poteri pubblici sono diffusi sul territorio, per cui non possiamo temere un eccesso di centralizzazione; che non rappresentano un corpo di dimensioni troppo vaste, per cui non possiamo temere che sia eccessivamente pesante sulla società; che non cresce a un ritmo eccessivo, per cui non dobbiamo avere timore che diventi un nuovo Leviatano. Se ci si addentra nello stato e si considera che gli addetti delle forze armate, delle forze di polizia e delle capitanerie di porto ammontano a 477.000 unità, mentre quelli della sanità e della scuola insieme sono più del triplo, ci si rende conto che l’”État Providence” è ben più robusto dell’”État Puissance”, cioè che il volto mite e compassionevole dello stato prevale di gran lunga su quello autoritario.

 

Se si cerca, poi, di capire quanto della forza organizzativa della società sia concentrata nei poteri pubblici e quanto, invece, sia legata alla capacità della società di auto-organizzarsi, si scopre che le istituzioni non profit sono 363.499, con un numero di 870.183 dipendenti. Si tratta perlopiù di associazioni, di cui un terzo sportive, ma quasi la metà del personale che vi lavora si interessa di assistenza sociale e di protezione civile. Questo è un segno della capacità della società di camminare da sola  e persino di fare a meno dello stato.

  

Infine, ci si aspetta che i poteri pubblici siano rappresentativi della società, che ne riflettano fedelmente le grandi distinzioni, a cominciare da quella tra uomini e donne. Ora, la popolazione italiana è composta per il  48,7 per cento di uomini e per il 51,3 di donne. La femminilizzazione del potere pubblico, complessivamente, è invece superiore, è del 58,5 per cento, con una presenza femminile particolarmente alta nella sanità, anche se particolarmente bassa ai vertici (solo il 15,7 per cento, ma in aumento, e con un forte divario tra il Mezzogiorno e il Nord-Est, perché nel Mezzogiorno la presenza femminile ai vertici è solo dell’11,4 per cento, mentre nel Nord è quasi del doppio, il 19,4 per cento).

  

La ricerca di una "obiettività quantitativa"

Ci possiamo accontentare di questi dati o non dovremmo chiedere all’Istituto nazionale di statistica altri dati? L’appetito vien mangiando, e dall’Istat vorremo molto altro: da dove vengono i dipendenti pubblici? C’è ancora una forte meridionalizzazione dei poteri pubblici? Quali studi hanno fatto gli addetti alle macchine pubbliche e quale cultura portano quindi all’interno di esse? Perché c’è la forte carenza di competenze digitali segnalata dall’Istat? Da che cosa dipende la debole capacità amministrativa indicata dal basso tasso di realizzazione dei programmi di investimento? Qual è la causa dei tempi lenti dell’azione amministrativa?

 

In conclusione, l’Istat fa un lavoro prezioso ma ci dovrebbe spiegare anche come cambiano i  poteri pubblici; quanto essi siano capaci di interpretare la domanda sociale che, direttamente o attraverso il corpo politico, a essi si rivolge; come essi cambiano nel tempo. Un acuto studioso americano di storia, Theodore M. Porter, in un libro di quasi trent’anni fa intitolato “Trust in Numbers. The Pursuit of Objetivity in Science and Public Life”, edito da Princeton University Press nel 1995, ha osservato che l’esercizio del potere discrezionale di assumere decisioni è stato tradizionalmente prerogativa delle élites. Queste hanno perduto una parte del credito che avevano e la  statistica e i suoi usi sono diventati manifestazione di una diffidenza verso le élites. Di qui la ricerca di una “obiettività quantitativa”. La ricerca di Porter e le sue riflessioni ci riportano alla radice della stessa parola statistica, che è in “stato” e ci ricordano che la statistica fa parte della democrazia.

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