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i dati

Le buone notizie sul lavoro ci sono. E riguardano anche i salari

Dario Di Vico

I numeri Istat sul nuovo record degli occupati mostrano alternative al paese percepito. E anche sul versante contributivo qualcosa sta cambiando, tra la riduzione del cuneo fiscale e le modifiche a vantaggio delle retribuzioni più basse 

Ancora più 30 mila e nuovo record di occupati a quota 23.743.000. A novembre il mercato del lavoro italiano, atteso a uno stop dopo i risultati straordinari e inattesi dei primi dieci mesi del 2023, si conferma in positivo rinviando il redde rationem quantomeno più in là nel tempo. Ma attenzione a tirare delle linee rette, in questo momento – come dicono gli esperti nel loro slang – “forecastare è molto difficile”. Ovvero meglio astenersi da previsioni a breve o a medio termine, perché è difficile capire se i dati odierni siano una coda del passato o un indizio di tendenze future. Di sicuro c’è estrema volatilità sui mercati e proprio ieri, mentre l’Istat mandava fuori i nuovi (e buoni) dati, c’è stato alla Borsa di Londra il tonfo di Hays (ricerca personale qualificato), a Zurigo Adecco ha esordito cedendo il 5,5 per cento e ad Amsterdam Randstad il 4,7 per cento. Tornando a Roma i dati di novembre presentano conferme e discontinuità. Continua la tendenza delle imprese a stabilizzare i contratti a termine: a tenersi “i buoni” e anche quelli un po’ meno (il termine tecnico è labour hoarding) per far fronte alla cronica mancanza di manodopera vuoi per motivi più contingenti di mismatch di competenze vuoi per il manifestarsi progressivo dello scalino demografico.

In volumi i nuovi posti fissi prodotti a novembre sono stati 23 mila ma stavolta sono in crescita anche i contratti a termine (15 mila) che nei mesi scorsi erano in contrazione. Se allarghiamo la visuale e consideriamo i dati di un anno, novembre ’23 su novembre ’22, i posti a tempo indeterminato sono cresciuti di 550 mila unità e i precari sono scesi di 57 mila. Sintesi: il gelo delle assunzioni è ancora rinviato e le aziende stabilizzano la forza lavoro che già conoscono ma tengono anche aperta la pipeline dal lato dell’ingresso (i contratti a termine).

I pessimisti potranno poi interpretare altri numeri in chiave negativa e anticipatoria di un futuro stop: dopo mesi di diminuzione degli inattivi e aumento dei disoccupati a novembre è successo il contrario e ciò testimonia di una ventata di sfiducia e di mancata partecipazione. Cala anche l’occupazione tra i 15 e i 34 e anche questo è un segnale che inquieta. Però ribadito a mo’ di caveat che analizzare mese per mese i dati dell’occupazione è un esercizio tra i più complessi si può dire che novembre non fa certo da spartiacque delle tendenze 2023. Anzi, segna ancora un mercato del lavoro stra-popolato di posti fissi (18 milioni 700 mila) con un aumento quantitativo dell’occupazione a cui non fa da pendant né un incremento delle competenze né l’auspicato aumento della produttività. Ricordiamo che tra il ’19 e il ’23 la variazione in materia è stata nulla mentre nell’eurozona c’è stato comunque un +1 per cento per cento di maggiore produttività. 

Se “forecastare” è un esercizio sconsigliato si possono però abbozzare delle riflessioni sul legame tra occupazione e andamento dei salari. Si può legittimamente sostenere che l’incremento dell’occupazione registrato lungo il 2023 abbia attenuato le tensioni salariali e compensato di fatto il mancato allineamento delle retribuzioni all’incidenza dell’inflazione. Si è concretizzato in itinere una sorta di compromesso servito per limitare i danni in termini di temperatura sociale e di incidenza della riduzione dei consumi. Un compromesso che ha tolto spazio e motivazioni alle manifestazioni sindacali di protesta indette dai sindacati lo scorso anno e rivelatesi per lo più mobilitazioni organizzative che vere proteste di popolo. Oggi invece il quadro è cambiato: il combinato disposto tra la riduzione del cuneo fiscale e le modifiche fiscali a vantaggio delle retribuzioni più basse avrà qualche effetto sul versante redistributivo dopo due anni difficili per i ceti meno abbienti. Le previsioni di Ref Ricerche, ad esempio, segnalano un incremento dei salari del 3-4 per cento con un’inflazione che punta verso il 2 per cetno, il tutto in attesa che nei primi mesi del 2024 si firmi finalmente il contratto del commercio fermo da tempo immemore e che successivamente con lo scadere del contratto dei metalmeccanici si apra un’altra stagione di confronto sindacati-Confindustria. Aspettando queste scadenze è destinato a restare sullo sfondo il tema della produttività, la quale è orfana di una robusta paternità politica o sindacale. La sua crescita sembra demandata alla sola contrattazione di secondo livello e alla manifattura. Il terziario, dove peraltro è più bassa, resta terra incognita.

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