Wikimedia Commons 

La sentenza

Perché è grave la supplenza della Cassazione sul salario minimo

Oscar Giannino

Aggiungere caos al caos, usare una metodologia distorta, sostituirsi al Parlamento e alla politica. Serve altro per contestare la sentenza della Suprema Corte?

La sentenza 27711/2023 della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione non è una delle sempre più numerose che in questi anni sono intervenute in molti comparti occupazionali a basse tutele, e che tanto entusiasmo hanno suscitato con disposizioni di assunzioni a tempo indeterminato e adeguata retribuzione e contribuzione in settori come i riders, vigilanza e sicurezza, cooperative in regime di subappalto. Intervenendo nel delicato tema del salario minimo per legge, su cui il Cnel è al lavoro (vedi l'editoriale in questa pagina), la sentenza della Cassazione non è “de iure condito”, cioè espressa in base alla legislazione vigente, ma è “de iure condendo”, cioè intende fissare parametri a cui il legislatore dovrà fare riferimento. Non è la prima volta, è una modalità che si è diffusa nella crescente opera di supplenza sostitutiva a Parlamento e partiti che molta parte della magistratura associata rivendica come proprio “diritto-dovere”. Ma la caratteristica di questa sentenza è che addita l’incostituzionalità ex art. 36 della Costituzione di contratti di lavoro che, stando al nostro ordinamento vigente, sono regolarmente sottoscritti e depositati al Cnel.

Lasciamo ai giuristi valutare che il giudizio di sostituzionalità di norme vigenti spetta appunto alla Corte Costituzionale. Esaminiamo il solo punto di merito. La Corte d’Appello aveva archiviato il ricorso di un lavoratore del settore della vigilanza non armata rispetto all’ammontare del suo salario, i giudici avevano appunto notato che non era accoglibile perché il salario applicava un contratto regolarmente sottoscritto e depositato. La Cassazione cambia prospettiva: che sia scritto in un regolare contratto non significa nulla, il salario è troppo basso e non assicura la dignità del lavoro ex articolo 236 della Costituzione. Per giustificarlo, la Cassazione indica una serie di parametri: dai criteri Istat per valutare povertà assoluta e relativa, al reddito di cittadinanza, all’ammontare di Naspi e Cig, alla soglia di reddito per accedere alla pensione di inabilità. La sentenza per prima riconosce che non si tratta di parametri coercitivi ma a mero titolo di esempio. E tuttavia sono parametri tratti o da strumenti assistenziali volti alla lotta alla povertà o di politiche attive del lavoro volte alla transizione a nuova occupazione. In sintesi: non c’entrano nulla con la metodologia per calcolare un salario minimo per legge.

La domanda diventa: come devono comportarsi oggi i datori di lavoro nei ben noti settori (non la manifattura) in cui secondo le regole vigenti sono legittimamente operanti contratti con salari orari molto bassi, poco sotto o poco sopra i 5 euro l’ora, come nella vigilanza, logistica, ristorazione e ricettività, coop di servizi in subappalto, agricoltura e commercio, oltre a colf e badanti? Si devono preparare a un’ondata di impugnative. Perché mica la sentenza di Cassazione dice di preciso come fare ad evitarle. Al di là del plauso che la sentenza ha ottenuto, l’effetto è dunque di aggiungere nuovo caos alla confusione del dibattito sul salario minimo, che procede a scossoni in Italia da quando nel Jobs Act per primo Renzi propose l’idea di un salario minimo per legge in forma sperimentale e a tempo per giudicarne i risultati, nei settori più esposti a minor copertura contrattuale. Con una prospettiva cioè molto diversa dalle numerose proposte parlamentari infittitesi negli anni volte a fissare una cifra fissa oraria, fino ai 9 euro riproposti oggi da sinistre e Azione in realtà reiterando la proposta Catalfo della scorsa legislatura.

Non solo mostrando di ignorare che si tratterebbe di una cifra pari quasi al 75% dei salari mediani, ben oltre il 60% massimo fissato dalla Direttiva Europea e del tutto fuori linea rispetto ai paesi Ue che cominciarono con un’applicazione intorno al 50% della mediana. Ma soprattutto facendo una gran confusione tra TEM, il trattamento economico minimo contrattuale, e TEC, trattamento complessivo. Rischiando di portare un colpo ferale allo spazio prioritario che va riservato ai contratti tra imprese e sindacati. Senza alcun riguardo a un fattore decisivo: se da 25 anni e più abbiamo deflazionato i salari è perché è mancata e continua a mancare la produttività. E senza poi considerare prioritari gli aspetti essenziali del lavoro povero in Italia: l’intermittenza della prestazione e il lavoro irregolare (su questo, occhio all’allegato Nadef in cui sono identificati con precisione i settori di lavoro con irregolarità fiscali e contributive a doppia cifra percentuale).  Come diceva giustamente il compianto Ezio Tarantelli, “un sistema di relazioni industriali è un sistema complesso di regole e non un mero  sistema di regolamentazione del salario: Il volerlo ridurre a un sistema di regolamentazione del salario denuncia una comprensione solo parcellare di un sistema socio-politico ben più complesso”. Parole molto diverse, dalla riga tirata dalla Cassazione.

Di più su questi argomenti: