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L'editoriale del direttore

Le due tragedie di Brandizzo

Claudio Cerasa

Cinque operai morti in provincia di Torino. Ma accertare le colpe non basta più. Occorre puntare più in alto. Proporre nuovi reati e nuove commissioni di inchiesta. Perché la cultura dello scalpo è nemica dello stato di diritto

Nel disastro ferroviario di Brandizzo c’è una tragedia nella tragedia. La prima tragedia, quella più clamorosa ed eclatante, è quella che riguarda le famiglie dei cinque operai travolti e uccisi nella notte tra mercoledì e giovedì da un treno passeggeri, vuoto e fuori servizio, che viaggiava a velocità sostenuta da Alessandria in direzione di Torino. La seconda tragedia, meno eclatante ma non meno importante, è quella che riguarda la postura adottata da gran parte dell’opinione pubblica e da una buona parte della classe politica per provare a essere all’altezza, per così dire, della sete di giustizia maturata alla luce delle tristi notizie di Brandizzo.

Per la prima tragedia, sulla quale la procura di Ivrea sta indagando per disastro ferroviario colposo e omicidio colposo plurimo, valgono le parole del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ieri ha deposto sul luogo dell’incidente un mazzo di fiori: “Morire sul lavoro è un oltraggio ai valori della convivenza civile”.

Sulla seconda tragedia, invece, vale la pena spendere qualche parola ulteriore, per provare a ragionare su una patologia vera, concreta e funesta della nostra cultura giudiziaria: la logica dello scalpo. E la logica dello scalpo, di fronte a un incidente, di solito funziona così. Non ci si limita a chiedere alla procura di svolgere il suo lavoro con attenzione, serietà e celerità. Ma solitamente si fa qualcosa di più. In alcuni casi, si chiede di alzare le pene di un qualche reato per mostrare vicinanza alle famiglie delle vittime (cosa che ha fatto ieri il M5s). In altri casi, si annuncia di voler introdurre un nuovo reato per mostrare sensibilità verso una qualche problematica emersa nella tragedia (cosa che ha fatto ieri il Pd). In altri casi ancora, si propone di aprire una commissione di inchiesta per far luce “a pieno” sul caso (cosa che ha fatto ancora il Pd). In alcune circostanze, però, si arriva a fare qualcosa di più. Si chiede di avere risposte immediate, “entro stasera”, ha detto ieri il senatore Maurizio Gasparri (FI), anche per smetterla con questo clima di “impunità verso chi è responsabile di eventi come questi”. “A sedici anni di distanza siamo di fronte a una nuova Thyssen”, ha detto ieri il segretario della Cgil Piemonte Giorgio Airaudo, facendo riferimento al grave incidente sul lavoro avvenuto il 6 dicembre 2007 nello stabilimento ThyssenKrupp di Torino, nel quale otto operai furono coinvolti in un’esplosione che causò la morte di sette di loro.

Al contrario di quello che si potrebbe credere, assecondare la cultura dello scalpo, di fronte a una tragedia come quella di Brandizzo, non significa voler fare giustizia su un fatto grave, accertando i fatti, acquisendo le prove, identificando le responsabilità e provando a individuare con esattezza e precisione le colpe dei singoli individui. Significa, al contrario, voler fare un salto logico poderoso, mossi dalla consapevolezza che l’unico vero modo per mostrare vicinanza alle famiglie delle vittime è puntare in alto, individuando responsabilità più celebri, più potenti, in modo da poter assicurare alla condanna una maggiore valenza esemplare e catartica.

“Il bisogno emotivo di individuare colpevoli – ha detto mesi fa a questo giornale Vittorio Manes, professore ordinario di Diritto penale all’Università di Bologna – segue spesso la logica del ‘capro espiatorio’, e questa necessità sembra appagarsi solo quando si arriva a corresponsabilizzare uno o più soggetti apicali, individuando responsabilità più gravose, più famose, più notiziabili”. I reati, si sa, sono personali, sono soggettivi, sono commessi da una persona fisica non da una carica sociale ma da qualche anno a questa parte la giurisprudenza italiana, di fronte a fatti gravi come quelli di Torino, ha scelto di muoversi seguendo una direzione diversa, in base alla quale il reato non è più soggettivo ma deriva da una non meglio identificata o identificabile “responsabilità oggettiva”, in base alla quale per il solo trovarsi in una determinata posizione di vertice si può essere chiamati a rispondere anche per un caso fortuito.

Il tentativo di trasformare un incidente frutto di un grave errore nella gestione di un passaggio della catena di comando nel simbolo di una necessaria rivalsa contro il potere costituito di una società si è verificato negli ultimi anni in Italia in almeno due circostanze diverse. Un caso è quello accennato da Airaudo, della Thyssen. Un altro caso è quello che con ogni probabilità verrà evocato oggi da molti giornali: Viareggio, dove il 29 giugno 2009 un treno merci trasportante Gpl deragliò nei pressi della stazione ferroviaria di Viareggio, a causa della  rottura di un assile di uno dei carri cisterna non mantenuto correttamente. Nel caso della Thyssen, dopo quasi vent’anni e sei gradi di giudizio, sono stati condannati  sei manager della ThyssenKrupp per il rogo, per  omicidio colposo plurimo, incendio colposo e omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro e “scellerate strategie aziendali”. Nel caso di Viareggio, il vertice dell’azienda, Mauro Moretti, è stato considerato responsabile di “esercizio colposo dei poteri di direzione e coordinamento” e condannato per “condotta commissiva”, per aver cioè imposto attivamente “a livello di gruppo l’inosservanza della regola cautelare per una precisa scelta aziendale”. Cioè, risparmiare. L’estensione  della responsabilità oggettiva dei manager dinnanzi agli incidenti sul lavoro ha portato qualche mese fa Assonime, l’associazione per le società per azioni italiane, a pubblicare un interessante paper sul tema (“La gestione del rischio nei gruppi d’imprese e la responsabilità penale”). E ha portato Assonime a notare quanto segue: “Molti disastri spesso sono semplicemente frutto più di ‘miopie organizzative’ che di errori umani, e dovrebbero dunque risultare poco compatibili con un sistema di responsabilità, come quello penale, basato sui princìpi di personalità e colpevolezza. Ma nel processo si insinua la logica medievale della ‘responsabilità oggettiva’”. Il punto è sempre quello: il potente non poteva non sapere. Accertare le colpe non basta più. Alzare l’asticella è necessario. E il calcolo è ovvio: assecondare la giustizia del dolore porta consenso, assecondare lo stato di diritto no. Morire sul lavoro è, come ha detto Sergio Mattarella, “un oltraggio ai valori della convivenza civile”. Ma non lo è anche avere un paese incapace di ribellarsi alla presenza di una Repubblica fondata più sullo scalpo che sul lavoro?

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.