(foto Ansa)

Manzoni e quelle due parole che tormentarono Enzo Tortora: “Si vuole”

Guido Vitiello

E' una formula contenuta nella Storia della Colonna Infame: un riferimento letterario che ha accompagnato l'esperienza vissuta dal conduttore e giornalista con la malagiustizia italiana

Un dì si venne a me Filologia, ma dopo qualche schermaglia amorosa capì che non facevo al caso suo. Mi lasciò la passione di perdermi nel dettaglio con inesauribile pedanteria, ma anziché sui codici medievali la esercitai sulle cronache. E così, imbeccato da un bel libro di Gaetano Insolera, La giustizia penale di Alessandro Manzoni (Mucchi Editore), ho tentato un esercizio di filologia spicciola su una questione in apparenza marginalissima: Enzo Tortora lettore della Storia della Colonna Infame. Ne è venuta qualche scoperta affascinante di cui metto a parte il lettore. Tortora si imbatté nel testo manzoniano nel 1983 a Regina Coeli. Lo racconta nel memoriale delle sue prigioni, Cara Italia ti scrivo (Mondadori, 1984), scritto con il giornalista Guido Quaranta. Deluso da ciò che offriva la biblioteca del carcere – vite dei santi, trattati sul sistema penitenziario, classici russi in traduzioni antiquate – si fece portare qualche libro da casa.

 

“Uno dei primi a capitarmi tra le mani fu la Storia della Colonna Infame, un racconto del Manzoni che considero ancora più interessante dei Promessi sposi perché rievoca un processo imbastito sui sospetti: il processo contro gli untori, celebrato a Milano nel 1630. Passai così diverse sere a rileggere la tragica vicenda di quel barbiere meneghino, Gian Giacomo Mora, accusato da alcune comari (allora non c’erano i pentiti) di spargere unguenti che procuravano la peste, squartato in piazza sant’Alessandro, vicino a casa mia”. Fin dal primo momento, Tortora rispecchia la propria vicenda in quella di Mora, tanto da spostare per lapsus il luogo dell’esecuzione – che avvenne altrove – in una piazza a duecento metri dalla sua casa in via dei Piatti. Ma per il momento si limita a chiosare: “Una lettura davvero istruttiva”, e passa oltre.

 

L’anno dopo, Tortora accetta la candidatura offertagli da Marco Pannella alle europee del giugno 1984, e nello spot elettorale girato ai domiciliari in via dei Piatti lo vediamo sfilare dallo scaffale un grosso volume: “Proprio da questa Milano proiettata nel futuro e ancora immersa come tutto il paese nel Medioevo, proprio in questa Milano, passeggiando per queste stanze, io trovavo un libro”. Era una copia rilegata dei Promessi Sposi che aveva, naturalmente, la Colonna Infame in appendice. E aggiungeva: “Oggi i processi per la peste – io sono stato accusato di spargere la droga e la camorra – avvengono con la stessa metodologia: certo non c’è più la forca, certo non c’è più la ruota, certo non ci sono più gli strumenti di supplizio ma c’è questo interminabile, atroce tunnel che si chiama carcere, attesa di giudizio”. A febbraio era cominciato il processo, e Tortora si era presentato alla prima udienza con un amuleto (lo racconta in Se questa è Italia (Mondadori, 1987, sempre con Quaranta): “Mi misi in tasca una copia della Storia della Colonna Infame di Alessandro Manzoni, con un’introduzione di Leonardo Sciascia, che mi ero portata da Milano”. Non è il tomo che vediamo nello spot elettorale, è l’edizione Sellerio del 1981. Con quella edizione, Enzo Tortora volle farsi seppellire. 

 

E qui dobbiamo perderci in un dettaglio ancora più minuto, ma forse più illuminante. Il caso Tortora è incorniciato da una formula apparentemente innocua, fatta di due parolette: “Si vuole”. Compaiono per la prima volta nel rapporto dei carabinieri redatto a ridosso dell’arresto: “Si vuole che sia dedito allo spaccio delle sostanze stupefacenti nell’ambiente artistico da lui frequentato”. Ricompaiono, beffardamente, nell’ultimo passaggio televisivo di Tortora – in collegamento telefonico dal suo letto d’ospedale – nell’Istruttoria di Giuliano Ferrara, 20 aprile 1988, poche settimane prima della morte. A pronunciarle è il magistrato che aveva sostenuto l’accusa in appello, Armando Olivares – un nome da vicereame spagnolo, notò Sciascia: tout se tient – che incalzato da Ferrara perché spiegasse com’era stato possibile un simile disastro inaugurò così la sua ricostruzione delle indagini: “Si vuole questo”. Quella formula ossessionava Tortora, al punto che al processo di appello, nell’udienza del 26 giugno 1986, l’aveva scandita quattro volte di fila, aggiungendo rivolto al giudice: “E non le cito chi ha detto vuolsi così colà dove si puote, evidentemente, perché è il raffronto più immediato”.

 

C’è, tuttavia, un raffronto meno immediato ma più pertinente di quello dantesco, e lo si trova nelle prime pagine della Colonna Infame: “Dio solo ha potuto vedere se que’ magistrati, trovando i colpevoli d’un delitto che non c’era, ma che si voleva…”. A volerlo erano le folle di Milano, di cui i magistrati si fecero complici, cominciando a volerlo anche loro. E’ una volontà che Tortora avvertì sempre più forte contro di sé. All’inizio del caso, si era attestato per così dire sulla linea Verri: il problema ai suoi occhi non era la malevolenza dei magistrati napoletani, era la legge sui pentiti (nel 1984 aveva evocato il caso Mora nella prefazione a un pamphlet di Mauro Mellini, Una Repubblica Pentita). Quattro anni dopo però, in coda all’Istruttoria di Ferrara, quando il presidente dell’Anm Criscuolo provò a convincerlo che il suo caso non era dovuto alla malizia degli uomini, era frutto di un sistema processuale antiquato, e che il nuovo codice avrebbe senz’altro impedito casi come il suo, Tortora, con un filo di voce, gli negò ogni clemenza: “Volevate difendere la vostra cattiva fede”. Alla fine della sua parabola, aveva abbracciato Manzoni (e Sciascia). Così stretti da portarseli nella tomba.