(foto Ansa)

L'intervento

Dedicare una piazza a Enzo Tortora è una scelta di sinistra

Giorgio Gori

Quarant’anni fa vi fu la più feroce delle gogne. Il sindaco di Bergamo spiega la sua iniziativa al Foglio. Con uno sguardo alla riforma della giustizia di Nordio approvata dal governo

Oggi, nel quarantesimo anniversario dell’arresto di suo padre, Gaia Tortora sarà a Bergamo per presentare il suo libro insieme a me e a Filippo Sensi. A seguire, procederemo insieme ad intitolare ad Enzo Tortora, in ragione della sua battaglia per una giustizia giusta, i giardini di Piazza Dante, recentemente riqualificata. Sul lato nord della piazza si affaccia il palazzo della Procura della Repubblica.


 

Il 17 giugno 1983 – quarant’anni fa - Gaia Tortora era una quattordicenne in procinto di sostenere l’esame di terza media. Alle 4.15 di quella mattina suo padre, Enzo Tortora, venne arrestato a Roma, dove si trovava in albergo. Prelevato prima dell’alba, venne trasferito al vicino comando dei Carabinieri. L’accusa: associazione per delinquere di stampo camorristico finalizzata al traffico di droga e di armi. A mezzogiorno fu fatto uscire ammanettato e scortato da due agenti. Per salire sul cellulare – parcheggiato sul lato opposto della strada – fu costretto a transitare di fronte ad un nugolo di giornalisti, fotografi e cameramen. L’arresto venne eseguito nell’ambito di un’operazione della Procura di Napoli che comprendeva 856 mandati di cattura e 412 arresti contemporanei. Contro Tortora, solo le dichiarazioni di due pentiti di camorra - Pasquale Pandico e Pasquale Barra detto “’o animale”, il killer di Francis Turatello nonché divoratore delle sue viscere – che lo accusavano di aver spacciato droga nel mondo dello spettacolo per conto di Raffaele Cutolo.

 

Prima di ottenere gli arresti domiciliari Enzo Tortora rimase rinchiuso nel carcere di Bergamo per sette mesi, nel corso dei quali venne interrogato solo due volte dai pm Lucio Di Pietro e Felice Di Persia; nel frattempo altri pentiti, allettati dagli sconti di pena promessi dalla legge Cossiga, fecero il suo nome. Venne così rinviato a giudizio, mentre 215 degli oltre 800 arrestati tornavano in libertà perché, risultò, erano stati arrestati per errore. La stragrande maggioranza dei media scelse in quei mesi di rappresentare Enzo Tortora come un criminale, tanto più disprezzabile in ragione della sua grande popolarità. Non c’erano prove contro di lui ma a nessuno sembrava importare. Dopo sette mesi di processo Tortora venne condannato a dieci anni e sei mesi di reclusione; nelle 267 pagine della sentenza che lo riguardavano lo si indicava come “socialmente pericoloso”: “un cinico mercante di morte”. Senonché era innocente. Risultò che i numeri di telefono contenuti nell’agendina di Giuseppe Puca, camorrista vicino a Cutolo, da cui i pm erano partiti per interrogare Pandico, appartenevano a tale “Enzo Tortona”, che qualcuno aveva confuso con “Enzo Tortora”. Il 15 settembre 1986 il processo di secondo grado lo vide assolto con formula piena (e con lui altri 112 dei 191 imputati), riconoscendo l’inattendibilità dei pentiti: sentenza confermata dalla Cassazione del 1987. Morì l’anno dopo, logorato dalla vicenda giudiziaria che l’aveva travolto, mentre i magistrati napoletani che nel frattempo aveva citato per danni venivano assolti dal Csm. Nella sua tomba volle una copia di Storia della colonna infame, il saggio che Alessandro Manzoni dedicò ai soprusi subìti da cittadini innocenti durante la peste del 1630.

 

Quarant’anni dopo Gaia Tortora, sua seconda figlia, oggi popolare giornalista televisiva del TgLa7, conduttrice di “Omnibus”, ha deciso di raccontare questa storia dal punto di vista suo e della sua famiglia, segnata in modo indelebile dai fatti che presero l’avvio quel 17 giugno.  Il libro che ha scritto si intitola “Testa alta, e avanti”. La storia giudiziaria di suo padre è concentrata nelle prime pagine. Le successive documentano il dolore che quella vicenda ha riversato sulle vite delle persone che gli volevano bene, cambiandone il corso, e non solo nell’immediato. Superando l’istintiva riservatezza, nella convinzione che le storie possono servire a cambiare il mondo, Gaia ha deciso di raccontare cos’è successo a lei – da quella mattina di quarant’anni fa ad oggi – nell’alternarsi di fasi caratterizzate da forza ed estrema fragilità, rabbia e vergogna, paura e indignazione. Il fatto è, come osserva Gaia, che non si può fare finta di niente. Perché il “caso Tortora” – aldilà della sensazione provocata dal vedere un personaggio di enorme popolarità accusato, detenuto e condannato senza alcuna prova, e nel frattempo descritto come un mostro da giornali e televisioni – non ha cambiato la giustizia italiana. “Gli innocenti continuano a finire in carcere ingiustamente, mentre il sistema dei media insiste nell’arrogarsi il diritto di giudicarli anzitempo, decretandone a furor di popolo l’innocenza o la colpevolezza”.

 

“Stiamo diventando la bara del diritto”, ripeteva spesso Enzo Tortora, riferendosi ai tempi della giustizia, alla carcerazione preventiva, alla drammatica situazione delle carceri. E lì ancora siamo, se negli ultimi dieci anni i cittadini reclusi in attesa di giudizio sono stati costantemente il 35 per cento dei detenuti, contro il 22 per cento della media europea, e 12 mila 583 persone – ha ricordato Alessandro Barbano –, tante quanti gli abitanti di Isernia, sono state assolte o prosciolte negli ultimi tre anni dopo essere finite in carcere da innocenti. E se un giudizio penale continua a richiedere in media sei-sette anni, tre volte la media europea. E se il tasso di sovraffollamento – che in Italia è mediamente del 119 per cento - raggiunge in Lombardia il 151 per cento, con punte del 184 per cento a Milano San Vittore e del 178 per cento nel carcere di via Gleno a Bergamo, la casa circondariale in cui Gaia Tortora andava a trovare suo padre durante i mesi di detenzione. E se in un solo anno, com’è accaduto nel 2022, ben 84 detenuti si sono suicidati negli istituti penitenziari italiani. Il caso di Enzo Tortora resta esemplare anche per il comportamento dei media, che con pochissime eccezioni lo giudicarono immediatamente colpevole, vedendone il protagonista di una narrazione irresistibile quanto monocorde: la caduta dell’intoccabile. I giudici venivano descritti come “seri, scrupolosi e prudenti”, mentre Barra, il killer camorrista che accusava il popolare presentatore, era “un cervello elettronico”, “una banca dati precisa, senza tentennamenti”.

 

Enzo Tortora e la sua famiglia vissero sulla propria carne la più feroce delle gogne mediatiche, alimentate dal falso senso comune che portava Camilla Cederna – tra gli altri – a dichiarare: “Non si va ad ammanettare uno nel cuore della notte se non ci sono delle buone ragioni”. “Qualcosa avrà fatto. La brava gente non viene arrestata”. Poche eccezioni a questa regola spietata: Piero Angela, che Gaia descrive affettuosamente, quasi come un secondo padre, Enzo Biagi, Federico Fellini, Giorgio Bocca, Stefano Rodotà, Leonardo Sciascia, Indro Montanelli. E Vittorio Feltri, che per primo (e unico), mentre il processo era in corso, prese l’iniziativa di chiamare il famoso numero di telefono contenuto nell’agendina di Giuseppe Puca e attribuito a Tortora, per scoprire che apparteneva a tutt’altra e ignara persona; e che verificò che il giorno in cui sosteneva d’aver consegnato a Tortora una scatola di scarpe piena di droga il pentito Gianni Melluso si trovava in realtà nel carcere di massima sicurezza di Campobasso. Poche eccezioni, poche schiene dritte. Gaia Tortora non ha scritto un pamphlet, ha scritto la storia della sua vita, con l’urgenza di chi avverte – dopo la morte di sua sorella Silvia, nel 2022 – uno speciale dovere di testimonianza, fors’anche verso sé stessa, e una responsabilità accresciuta dall’essere l’”ultima dei Tortora”. Ma il suo libro colpisce più di un pamphlet. Perché ha la forza dell’esperienza vissuta in prima persona. Il dolore galleggia, e l’unico modo per dargli un senso è quello di trasformarlo in una battaglia, in questo caso per un giornalismo più etico e per una magistratura più attenta.

 

Si tratta della direzione in cui si muove, finalmente, il pacchetto di riforme della giustizia approvato in questi giorni dal governo. È paradossale che a promuoverlo sia un governo di destra, ma tant’è. Il tenore delle reazioni ci dice che siamo ancora lì: presunzione di innocenza vs presunzione di colpevolezza, stato di diritto vs cultura della gogna, con un’ampia fetta della sinistra politica incapace di abbracciare una bandiera di buon senso e di libertà. Enzo Tortora avrebbe certo saputo da che parte stare. Nel poco tempo che gli è rimasto da vivere, conclusa la sua odissea giudiziaria, ha dedicato tutto sé stesso a battaglie come quella sulla responsabilità civile dei magistrati, con il referendum che nel 1987 raccolse l’80,5% di “sì”, o a quella in favore delle vittime di malagiustizia. Battaglie radicali, ma anche altamente liberali. “Perché – ricordava – riguardano la libertà e la dignità degli esseri umani, riguardano la civiltà di un paese”.

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