Complottisti e complottatori. Il caso Davigo e la mentalità cospirazionista nella magistratura

Luciano Capone

La loggia Ungheria, la manovra contro Ardita, il falso complotto Eni, le omissioni di De Pasquale, l'attendibilità dei pataccari Amara e Armanna. In questa complicata storia tutti, o quantomeno troppi pm, appaiono tanto inclini a credere ai complotti quanto ad attuarli

Le circostanze attorno alla condanna di Piercamillo Davigo dovrebbero spingere ad andare oltre la vicenda individuale del noto ex pm e aprire una riflessione più ampia su certi metodi e atteggiamenti mentali della magistratura. Un paio d’anni fa Giovanni Fiandaca, un’autorità del diritto penale, sul Foglio si interrogava sul perché i magistrati italiani siano spesso affascinati dalle teorie del complotto. La risposta dell’insigne studioso era che c’è una sorta di inclinazione professionale, dovuta alla logica del processo penale: “L’interpretazione di drammatici eventi o di gravi fenomeni dalla genesi complessa secondo il paradigma semplificatore del complotto – scriveva Fiandaca a proposito della costruzione del processo sulla Trattativa stato-mafia – si profila come l’unica, ancorché poco probabile, via per tentare di ipotizzare colpe individuali da attribuire a singoli colpevoli, senza le quali una indagine e un processo penale non potrebbero mai essere attivati”. Insomma, il codice penale porta a individuare persone in carne e ossa che hanno tramato per compiere dei crimini. Inoltre, scriveva sempre Fiandaca, “la ricostruzione in chiave di complotti o congiure criminose, da un lato, avvalora il ruolo decisivo del potere giudiziario esaltandone la funzione salvifica e, dall’altro, assicura alle indagini un grande appeal mediatico”.

 

Emergeva chiaramente, nella riflessione del professore di diritto penale, come il complottismo sia al contempo una mentalità operativa e uno strumento di potere. E cosa c’entra il caso Davigo? È totalmente attraversato da questa concezione e da questa pratica: ci sono finti complotti e si complotta veramente ovunque. Proviamo a ricostruire la vicenda per sommi capi. Tutto prende avvio da un pataccaro e noto calunniatore come l’avvocato Piero Amara, che per salvarsi dai numerosi processi a suo carico inizia a raccontare alla procura di Milano una serie di storie suggestive che ai pm piace sentirsi dire. Nello specifico inventa una fantomatica “loggia Ungheria”, una sorta di nuova P2, di cui farebbero parte i vertici delle forze dell’ordine, alti magistrati, giudici costituzionali, politici, consiglieri del Csm e perfino il Segretario stato del Vaticano. Quando questi verbali arrivano a Davigo, consegnatigli dal pm di Milano Paolo Storari, lui li prende maledettamente sul serio. Ed esattamente per i due motivi indicati da Fiandaca: da un lato, probabilmente per indole, è portato a credere che davvero esista la nuova P2 inventata da un pataccaro come Amara; dall’altro ha l’occasione di presentarsi come un baluardo della moralità all’interno del Csm irrimediabilmente corrotto (e magari ottenere un prolungamento della permanenza oltre l’età pensionabile).

 

Davigo, tanto temeva questa P2, che prima di rivelare gli atti secretati su Ardita al presidente della Commissione Antimafia del M5s, Nicola Morra, lo invita a lasciare il telefono e a parlarne nella tromba delle scale. E così, come spesso accade, chi crede ai complotti finisce per mettersi a “complottare”: Davigo non segue le regole e inizia a isolare nel Csm il suo ex amico poi diventato rivale Sebastiano Ardita, dicendo a una moltitudine di consiglieri di stargli alla larga perché è coinvolto nei verbali della loggia. Lo fa perché crede davvero ad Amara o, come ritiene Ardita, ben sapendo che quelle accuse erano false? 

 

Per Nino Di Matteo, invece, non c’era alcun dubbio che il complotto fosse al contrario. Quella che nelle parole di Davigo era un’azione volta a esaltare la funzione salvifica nel Csm, per l’altro pm eletto con la sua stessa corrente era un’evidente “manovra sporca” per infangare Ardita e condizionare il funzionamento del Csm. Tanto che, dopo aver ricevuto il plico anonimo con gli stessi verbali che Davigo riteneva credibili, Di Matteo ha denunciato prima alla procura di Perugia e poi pubblicamente il complotto contro Ardita.

 

Alla fine le intenzioni non sono così rilevanti, perché questo meccanismo psicologico in un ambiente paranoico porta a compiere gli stessi errori sia a chi è in buona fede sia a chi è in malafede. Prendiamo ad esempio Paolo Storari: perché consegna quei verbali su una pen drive a Davigo? Il pm è sinceramente convinto che i vertici della procura di Milano, Francesco Greco e Laura Pedio, stiano rallentando o insabbiando l’inchiesta. E quindi per impedire questo complotto complotta con Davigo per far smuovere le acque al Csm. Storari, che è stato assolto definitivamente, non è un disturbato che vede fantasmi. Aveva dei legittimi motivi che lo inducevano a pensare che nella procura di Milano non tutto filasse in maniera limpida, soprattutto nella gestione delle inchieste sull’Eni. Storari, che con la Pedio era titolare del fascicolo sul cosiddetto “falso complotto” Eni, aveva chiaramente notato che la procura era attenta a trasmettere nel processo Eni-Nigeria solo le dichiarazioni che facevano comodo al pm Fabio De Pasquale e non ciò che andava a favore della difesa: ad esempio, Storari aveva capito subito che Vincenzo Armanna – il super accusatore nel processo sulle presunte tangenti nigeriane finito con l’assoluzione completa dell’Eni – era un calunniatore. Esattamente come Amara.

 

Ma la procura, a partire da Greco, continuava a ritenerli credibili non solo per le accuse rivolte all’Eni ma anche per quelle, gravissime e altrettanto false, che coinvolgevano il presidente del collegio giudicante Marco Tremolada. La procura non operava in maniera corretta, come hanno evidenziato i giudici nelle sentenze, tanto che ora i pm De Pasquale e Spadaro sono a giudizio a Brescia per aver nascosto prove importanti a favore della difesa dell’Eni. Storari pensava che i suoi colleghi stessero complottando, ed è andato da Davigo. Dall’altro lato, De Pasquale pensava che Storari stesse complottando contro di lui tendendogli una “trappola” per favorire l’Eni. I pm sono allo stesso tempo astuti e creduloni. Ad esempio nell'inchiesta sul “falso complotto” partono credendo alla tesi di Amara e Armanna, secondo cui l’ad di Eni Claudio Descalzi era il loro burattinaio nel depistaggio contro la procura, e alla fine si scopre che Descalzi era la vittima delle calunnie di questi due personaggi a lungo ritenuti affidabili dalla stessa procura. La procura doveva sventare un complotto e in realtà ne è stata strumento.

 

Tutti, o quantomeno troppi, in questa storia credono ai complotti complottando. Perché quando si diffonde una mentalità poi i gruppi sociali tendono a organizzare controcomplotti per rispondere a complotti presunti o immaginari. Il passaggio da cospirazionista (chi crede ai complotti) a cospiratore (chi complotta davvero) è molto facile. È un meccanismo che Karl Popper ne “La società aperta e i suoi nemici” ha chiamato “teoria cospirativa della società”: “Tutte le volte che pervengono al potere persone che credono nella teoria della cospirazione – scriveva il filosofo liberale – sono facili quant’altre mai ad adottare la teoria della cospirazione e a impegnarsi in una controcospirazione contro inesistenti cospiratori”. Insomma, ciò che emerge è che la magistratura italiana – nelle procure e nel Csm – è incline tanto a credere ai complotti quanto ad attuarli. Come sottolineava Fiandaca, è un problema culturale più ampio del singolo caso Davigo e che dovrebbe preoccupare molto di più i cittadini.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali