Il complottismo di stato

Giovanni Fiandaca

E’ accettabile che un giudice in servizio concorra a concepire e un procuratore famoso si presti ad avallare un testo che ha la pretesa di dare per vere tesi “deliranti”? Su Giorgianni e Gratteri il Csm non può tacere

Prendo spunto da Leonardo Sciascia, di cui condividerei queste parole: “Ci vorrebbe un corpo di magistrati d’eccezionale intelligenza, dottrina e sagacia; non solo, ma anche, e soprattutto, di eccezionale sensibilità e di netta e intemerata coscienza”. Quanti sono i magistrati, in particolare tra quelli assegnati al penale, che si avvicinano a un simile modello? Si potrà obiettare che si tratta di un modello ideale troppo pretenzioso. Ma come non replicare, con lo stesso Sciascia, che la macchina punitiva può purtroppo funzionare anche come un potere “terrificante” che “azzanna” o, per dirla con Luigi Pirandello, come un “congegno indiavolato”? Si tenterà, forse, ancora di ribattere: preconcetta preoccupazione e diffidenza dei grandi scrittori siciliani, malati di pessimismo! Come sappiamo, però, la letteratura di ogni paese in realtà abbonda di opere che testimoniano o denunciano gravi episodi malagiustizia.


D’altra parte, pure oggi sono non pochi i casi che fanno quantomeno dubitare che il corredo di doti o caratteristiche (intellettuali prima che morali), che dovrebbe connotare il “buon” magistrato, sia di fatto diffuso in una misura rassicurante. Per limitarci a possibili esemplificazioni recenti, sembra anche a me emblematico il caso Giorgianni-Gratteri, ormai abbastanza noto ai lettori di questo giornale grazie ai ripetuti articoli di prima di Luciano Capone, e poi anche di Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa. In sintesi, ricordo che il casus belli nasce dalla pubblicazione del libro “Strage di Stato. Le verità nascoste della Covid-19” scritto dal giudice messinese Angelo Giorgianni e dal medico Pasquale Bacco, e accreditato dalla prefazione di un procuratore di grido come Nicola Gratteri. Orbene, che dire di due magistrati, uno co-autore e l’altro prefatore consenziente – o comunque non esplicitamente dissenziente! – di un libro che prospetta tesi complottiste sulla pandemia da coronavirus, ipotizza strategie globali del terrore e combutte criminali tra lobby economiche e lobby farmaceutiche e boccia i vaccini come schifezze che avvelenano (per una analisi dettagliata dei contenuti del libro cfr., in particolare, l’ampio articolo di Capone sul Foglio del 30 marzo scorso)? Trattandosi di magistrati, vale a dire di soggetti che la gente comune tende in partenza a considerare meritevoli di credibilità, il minimo che si possa paventare è un grave effetto fuorviante e disorientante. 


Dei due, di gran lunga più conosciuto è il procuratore di Catanzaro, e peraltro lo è non solo come grande star mediatica della lotta alla ‘ndrangheta, ma anche come personaggio che si è ormai più volte contraddistinto per atteggiamenti o comportamenti a vario titolo discutibili o singolari. Che hanno, non a caso, suscitato polemiche sulla stampa cosiddetta garantista, e persino critiche da parte di qualche illustre collega o ex collega (tra i quali, mi piace menzionare Edmondo Bruti Liberati e Armando Spataro). In sintesi, atteggiamenti o comportamenti del tipo: sovraesposizione nei media con pretesa tuttologica di discettare quasi su ogni tema e problema; obliquo adombramento di inquietanti sospetti sui giudici che bocciano sue indagini;  enfatizzazione spettacolare di grandi retate tramite conferenze-stampa o filmati televisivi che veicolano come colpevolezze accertate ipotesi accusatorie ancora tutte da provare; lamentele relative alla insufficiente attenzione pubblica su qualche indagine della procura di Catanzaro di presunta importanza straordinaria et similia. So bene che, specie agli occhi di quanti sono sensibili alla questione mafiosa, contegni o esternazioni anche molto discutibili rappresentano tutt’al più peccatucci da perdonare a giudici coraggiosi che mettono a repentaglio la vita per combattere le mafie, come sono consapevole che la reazione tollerante può derivare dalla preoccupazione che censure esplicite potrebbero delegittimarli con conseguente aumento della loro esposizione a pericolo. Ma ciò non toglie che sono in gioco principi e regole fondamentali dello Stato di diritto, che forse non vengono tenuti nella dovuta considerazione da chi antepone a tutto la venerazione dei santoni antimafia. E poi critiche e censure non vanno in ogni caso formulate in forma imprudentemente aggressiva o troppo personalizzata, tanto più che si tratta di modalità improprie di comportamento che sono andate nel tempo assumendo i tratti di un fenomeno tutt’altro che isolato. Già più di venti anni fa Gaetano Silvestri, da valente studioso poi divenuto presidente della Corte costituzionale, definì “la tendenza irrefrenabile all’esternazione pubblica” di molti importanti magistrati italiani” una “vera e propria emergenza costituzionale”, e in senso analogo in anni più vicini a noi si è ad esempio pronunciato un altro ex presidente della Consulta come Giovanni Maria Flick. Che esito hanno finora avuto questi ripetuti richiami ad un maggiore rispetto di quei doveri di riserbo, sobrietà e continenza cui in linea di principio dovrebbe conformarsi il contegno di ogni magistrato?  


Qualcuno forse obietterà che occorre, comunque, distinguere tra le prese di posizione extragiudiziarie e l’esercizio strettamente inteso delle funzioni inquirenti o giudicanti. A ben vedere, questa obiezione non è decisiva. Infatti, anche i contegni extraprocessuali possono far emergere quel che un magistrato ha in testa, come ragiona (o non ragiona) e possono svelare i pregiudizi, i sentimenti e i vari fattori di condizionamento che ne influenzano il modo di pensare, agire e reagire. Se è così, come si potrà essere sicuri che stili di pensiero o inclinazioni preoccupanti, che affiorano fuori dall’esercizio delle funzioni, non riemergano anche al momento di vagliare i fatti penalmente rilevanti? In effetti, il rischio di questa riemersione esiste davvero, e ciò per il semplice fatto che la complessiva personalità di ciascuno si manifesta un po' in tutte le attività in cui siamo coinvolti. 


E’ per queste ragioni che appare non privo di rilevanza pubblico-istituzionale il contenuto sia del libro di Giorgianni e Bacco sia della prefazione di Gratteri. E’ normale ed accettabile che un giudice in servizio concorra a concepire e un procuratore famoso si presti ad avallare un testo che ha la pretesa di dare per vere tesi “deliranti”? Entrambi si collocano all’interno o fuori dai limiti di quella libertà costituzionale di manifestazione del pensiero, che va garantita anche a ogni appartenente all’ordine giudiziario? Come sappiamo, il Csm è riluttante a sindacare con rigore i limiti di legittimo esercizio di tale libertà, perché la sua componente maggioritaria di togati non ha un concreto interesse anche per corrività corporativa a innescare marce indietro una volta che, nella costituzione materiale del nostro paese, il diritto di parola di ogni magistrato ha finito col poter essere esercitato pressoché senza limiti. In linea di costituzionalismo “teorico” sarebbe certamente sempre necessario, invece, un equilibrato bilanciamento tra la libertà di espressione e il rispetto di quei basilari doveri di etica professionale, la cui violazione compromette  la credibilità del ruolo rivestito in tutte le sedi (anche extragiudiziarie) in cui questo  viene pubblicamente esplicato: com’è intuibile, tra questi doveri che hanno la loro fonte ultima nella Costituzione, rientra appunto quello di adottare sempre un habitus mentale improntato a criteri razionali di giudizio, a loro volta   ancorati a dati empirici comprovabili e  conoscenze dotate di basi scientifiche; rifuggendo, di conseguenza, dalla tentazione di procedere per arrischiati teoremi astratti o – peggio – di cedere alla suggestione di scenari criminali frutto di sbrigliata immaginazione piuttosto che di puntuali ricostruzioni fattuali. 


A questo punto, vi è da chiedersi perché mai il “complotto” affascini i magistrati, specie inquirenti. In proposito, si può tentare più di una risposta. Ad esempio Guido Vitiello, in un breve commento sul Foglio del caso Giorgianni-Gratteri, è arrivato a sostenere che “la forma mentis dell’inquisitore inclina da secoli alla paranoia”. A dire il vero, la spiegazione in chiave psichiatrica rientra tra i possibili modelli esplicativi  dell’attrazione per i complotti: secondo Richard Hofstadter, mentre il tipico paranoico psichiatrico sospetta che il mondo intero congiuri contro di lui, il paranoico sociale si convince che certi eventi drammatici o infausti siano orditi da poteri occulti che attaccano il proprio gruppo o la propria nazione. Ma, senza scomodare la psichiatria, la sindrome del complotto e la teoria cospirativa della società possono psicologicamente derivare dal fatto – come suggerisce Umberto Eco nella scia di Karl Popper – che “le spiegazioni più evidenti di molti fatti preoccupanti non ci soddisfano, e spesso non ci soddisfano perché ci fa male accettarle”.  


Dal canto mio, avanzerei ipotesi complementari di spiegazione riferibili più specificamente alla logica del processo penale e alla sua potenziale risonanza mediatica. Come ho rilevato a proposito della controversa vicenda della presunta trattativa Stato-mafia, l’interpretazione di drammatici eventi o di gravi fenomeni dalla genesi complessa secondo il paradigma semplificatore del complotto si profila come l’unica, ancorché poco probabile, via  per tentare di ipotizzare colpe individuali da attribuire a singoli colpevoli, senza le quali una indagine e un processo penale non potrebbero mai essere attivati: la responsabilità penale per esplicito principio costituzionale è infatti “personale”, per cui non potendosi accusare entità collettive indeterminate, il magistrato inquirente deve giocoforza andare alla ricerca di Signori del Male in combutta criminosa ai danni dei cittadini, da individuare e processare – a dispetto di ogni oggettiva difficoltà – con nome e cognome. Nel contempo, la ricostruzione in chiave di complotti o congiure criminose, da un lato, avvalora il ruolo decisivo del potere giudiziario esaltandone la funzione salvifica e, dall’altro, assicura alle indagini un grande appeal mediatico (la tesi di una cospirazione tra registi di trame oscure e malefiche avvicina la narrazione giudiziaria a un romanzo d’appendice fatto apposta per attrarre il grande pubblico). 


Poiché però i requisiti intellettuali del buon magistrato non coincidono con quelli dello scrittore di gialli intriganti o di romanzi popolari avvincenti, penso che abbiano senz’altro ragione Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa a rivolgere appelli sia alla grande stampa rimasta finora per lo più “omertosa” (tranne piccoli accenni di taglio ironico su Repubblica e Corriere della sera), sia al Csm e al ministro della Giustizia affinché non vengano sottovalutati gli aspetti e i riflessi preoccupanti del caso in questione. Senonché dubito che in particolare il Csm abbia oggi la capacità e la forza di riuscire a orientare davvero la condotta (latamente intesa) dei magistrati, e ciò per un insieme di ragioni connesse anche alla grande confusione e all’incertezza valoriale della fase storica che stiamo vivendo. Volendo nonostante tutto confidare nella possibile reversibilità di questa crisi profonda, e se non fossimo ormai fuori tempo massimo, inviterei i componenti dell’organo di autogoverno ad adottare come bussola le “nove massime di deontologia giudiziaria” che un accreditato giusfilosofo come Luigi Ferrajoli, non certo nemico della magistratura, ha additato pochi anni fa per disegnare l’identikit del magistrato degno di questo nome (le massime sono leggibili in Questione giustizia, n. 672012, 74 ss.). Ancora una volta, un modello troppo teorico per essere calato nella nostra realtà?  

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