Piazzapulita nella magistratura

Luciano Capone

Lo spettacolo di quattro importanti magistrati che si accusano reciprocamente da Formigli è pietoso ma realistico. C’è però qualcosa che Francesco Greco e “Pieranguillo” Davigo non hanno chiarito sul caso Amara

La puntata di “Piazzapulita”, in cui quattro prestigiosi magistrati si accusano e insultano reciprocamente in prima serata, presenta un quadro pietoso ma sicuramente realistico della giustizia in Italia. I presenti, chiamati a discutere del caso Amara-Davigo, non sono quattro giudici qualsiasi, ma personalità che rappresentano i vertici della magistratura italiana: Luca Palamara (già presidente dell’Anm e membro del Csm, oltre che capocorrente), Alfredo Robledo (già procuratore aggiunto a Milano), Piercamillo Davigo (ex capocorrente e membro del Csm) e Sebastiano Ardita (consigliere in carica al Csm). E’ una lotta di tutti contro tutti, che mette in scena la guerra fratricida e tra bande che regola il funzionamento della magistratura in Italia. Prima, quando c’era Berlusconi, e i magistrati non potevano prestare il fianco al nemico i panni sporchi si lavavano in casa, ora lo si fa appunto in piazza.

 

 

Lo scenario, dicevamo, è pietoso ma quantomeno è realistico a differenza del quadro idilliaco dal titolo “Autonomia e indipendenza della magistratura contro la politica corrotta” che veniva appeso fino a qualche anno fa in tutti i talk-show. Detto questo, la caotica vicenda Amara e della fantomatica “loggia Ungheria” presenta ancora alcune tessere mancanti in un mosaico in cui tutti i principali protagonisti non fanno una bella figura. Di certo non la fa il pm Paolo Storari, colui che pare destinato a diventare il capro espiatorio di questa vicenda per aver consegnato i famosi verbali a Davigo. Ma Storari era mosso da un’inquietudine reale, che getta un’ombra sulla gestione di Amara dal parte della Procura di Milano e del suo capo Francesco Greco. Perché da un lato la procura inviava a Brescia e valorizzava tutte le dichiarazioni di Amara utili nel processo contro l’Eni (che la procura ha comunque perso: tutti assolti) mentre dall’altro mostrava inerzia per le dichiarazioni sulla presunta loggia Ungheria che, probabilmente, avrebbero certificato l’inaffidabilità di Amara inficiando il processo contro l’Eni. Insomma, siamo di fronte a un uso abbastanza arbitrario della cosiddetta “obbligatorietà dell’azione penale”. Su questo punto ha sicuramente ragione Davigo, che condivide le preoccupazioni di Storari.

 

Ma Davigo fa una pessima figura su tutto il resto, a partire dai diversi “preferisco non parlare” e “preferisco non rispondere” in risposta alle domande. Davigo si trasforma poi in “Piercavillo” quando dice che i verbali “erano copie word, non atti originali” come se cambiasse qualcosa, dal momento che era consapevole che fossero atti secretati e da tali li ha trattati. Infine si trasforma, come sagacemente l’ha ribattezzato Robledo, in “Pieranguillo” quando sfugge al tema di fondo sulla sua condotta con la falsa giustificazione secondo cui avrebbe agito con “massima cautela” senza seguire le vie formali perché “avrebbe comportato il disvelamento” della vicenda. A giudicare dall’esito, Davigo ha ottenuto l’opposto. Non seguendo le vie formali, hanno saputo dell’indagine un sacco di persone e i verbali secretati, probabilmente grazie alla sua segretaria, sono finiti sulla scrivania di quasi tutti i giornali tranne che su quella di chi avrebbe dovuto averli: il comitato di presidenza del Csm. Dopo lo spettacolo della magistratura a “Piazzapulita”, servirebbe forse un po’ di piazza pulita nella magistratura: non una “vendetta” della politica, ma una riforma della giustizia.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali