(foto Ansa)

l'analisi

Il populismo giudiziario che scorre nella lingua dei magistrati

Guido Vitiello

Cinquant’anni fa “baroni rampanti”, oggi, da Bergamo a Crotone, “cavalieri inesistenti”. Con una prosa enfatica e moraleggiante

Come una catena di monti, una dorsale linguistica invisibile attraversa gli uffici giudiziari della penisola da Bergamo a Crotone, congiungendo le parole del procuratore Chiappani, secondo cui è “nostro dovere soddisfare la sete di verità della popolazione” sulla gestione del Covid, all’ordinanza del gip Ciociola sui migranti, quella della “mareggiata pitagorica”, degli “aurighi dei natanti”, delle “vittime di un destino sordo”, dei “disperati viaggi della speranza”. Già, ma di quale bizzarro Appennino si tratta? Il linguista Vittorio Coletti, sul Secolo XIX del 9 marzo, ha tracciato una riga congetturale sulla nostra mappa: tra il populismo facilone del procuratore di Bergamo e l’estro verbale del gip di Crotone – che gli ricorda una versione un po’ aulica della brillantezza da social network – si direbbe che la magistratura stia cominciando a parlare, e soprattutto a pensare, come la gente comune. Per parte mia, non ho dubbi che il trait d’union tra Bergamo e Crotone sia il populismo giudiziario; non credo però che questo passi per l’adozione di un linguaggio schiettamente popolare.

 

Del resto, “soddisfare la sete di verità” è formula nota al lessico della giustizia, e alle sue pagine più buie: nei manuali inquisitoriali del Dodicesimo e Tredicesimo secolo si legge che l’azione giudiziaria deve sitim veritatis restinguere, placare la sete di verità del popolo contro gli eretici, come ha ricordato l’avvocato Iacopo Benevieri, studioso di linguistica giudiziaria e autore di un libro prezioso sulle parole della giurisdizione, Abiura, appena pubblicato da Mimesis. Benevieri ricorda inoltre che solo nell’atto finale della procedura inquisitoriale, ossia la recitazione pubblica della sentenza, la lingua – che fino a quel momento era stata un latino imperscrutabile ed esoterico – diventava il volgare, la stessa del popolo a cui era destinata la predicazione esemplare. 

 

Non posso vantare le competenze di Coletti o di Benevieri, ma voglio ugualmente suggerire un’altra possibile guida alla lettura della nostra mappa, un po’ meno recente del linguaggio dei social network ma non così antica come i manuali inquisitoriali. Le frasi dei magistrati di Bergamo e di Crotone, infatti, mi hanno riportato alla memoria echi di un libro di cinquant’anni fa, scritto a quattro mani da Antonio Santoni Rugiu e Milly Mostardini, I P.G. Linguaggio politica educazione nei discorsi dei procuratori generali (Guaraldi, 1973). Gli autori analizzavano i discorsi pronunciati dai procuratori generali in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario per risalire, dal linguaggio usato, alla loro concezione implicita del ruolo del magistrato e del rapporto tra giustizia e società. Il libro, com’è inevitabile, porta tutti i segni del tempo in cui fu scritto: è un atto d’accusa, mosso da sinistra, contro l’immagine ieratica e conservatrice del magistrato come “sacerdote di Temi”, isolato dalla società e dai suoi tumulti. E allora com’è che ritroviamo lì le stesse parole e gli stessi vezzi dei nostri giorni populisti? Ci sono, in quel vecchio libro, gli antenati delle “mareggiate pitagoriche”: magistrati con la passione per il periodare ciceroniano, la punteggiatura teatrale, il linguaggio figurato, il metaforismo barocco, i richiami mitologici, le immagini corrusche da melodramma o da feuilleton, i preziosismi affettati di quello che gli autori chiamano, carduccianamente, “manzonismo degli stenterelli” (che a quel tempo, va detto, erano stenterelli un po’ meno stentati del gip di Crotone). Sono tic linguistici che tradiscono un’idea della funzione giudiziaria “in senso umanistico e di matrice umanistica”, un’idea premoderna e pastorale, da padre predicatore più che da tecnico del diritto. Troviamo anche, nei discorsi analizzati da Santoni Rugiu e Mostardini, occasionali riferimenti al popolo; ma si tratta di un popolo evocato astrattamente in funzione carismatica, o al limite vezzeggiato con un populismo tutto letterario, in uno stile che gli autori riportano al D’Annunzio del periodo tolstoiano. 

 

Sembrerebbero storie lontanissime. Quei procuratori appartenevano alla generazione aristocratica e sacerdotale dei “baroni rampanti”, come li ha battezzati lo storico del diritto Michele Luminati applicando brillantemente la trilogia di Italo Calvino all’immagine di sé che la magistratura ha coltivato dal 1945 a oggi. Dopo quella generazione sarebbero arrivati, sull’onda della contestazione, i “visconti dimezzati”, divisi tra l’applicazione della legge e la vocazione alla militanza politica. Ma anche quell’epoca è alle spalle. Da molti anni ormai siamo circondati da “cavalieri inesistenti”: magistrati che si attribuiscono un ruolo sociale esorbitante – sono filosofi, storiografi, taumaturghi, sociologi, giornalisti d’inchiesta – senza averne ben chiari i confini e la legittimità democratica. Nel vuoto dell’armatura fanno così rimbombare la prosa enfatica e moraleggiante dei nonni baroni o si affannano a proclamarsi amis du peuple come i padri visconti, ma si intuisce che sono molto più insicuri della propria funzione. Forse in cuor loro i cavalieri inesistenti sospettano che, se a gonfiarla non ci fosse il soffio continuo del richiamo retorico al popolo, alimentato dal mantice mediatico, la loro armatura si affloscerebbe a terra.

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