Sergio Mattarella durante la cerimonia di commiato dei componenti del Csm uscente al Quirinale (Ansa)

L'editoriale

Mattarella, i magistrati e il partito della gogna, vero nemico della Carta

Claudio Cerasa

Difendere una magistratura che rivendica pieni poteri e alimenta la gogna non significa difendere la Costituzione, ma significa infangarla. Una guida per non credere alle balle che leggerete sul discorso di ieri al Csm

La grancassa del circo mediatico-giudiziario utilizzerà le parole pronunciate dal presidente della Repubblica alla cerimonia di insediamento del nuovo Csm per infilare letame nel ventilatore azionato con sapienza quotidiana dal partito della gogna e per dimostrare, dandosi di gomito, che quello che ieri il capo dello stato ha detto di fronte al Consiglio superiore della magistratura non fa altro che confermare quello che i quotidiani più sensibili al richiamo delle veline delle procure non fanno che ripetere da giorni. E cioè: chi vuole intervenire sui poteri dei magistrati non è solo un nemico del popolo ma è anche un nemico della Costituzione.

 

Così, già ieri pomeriggio, le parole sobrie e misurate con cui Sergio Mattarella ha ricordato il ruolo cruciale svolto dalla magistratura nel nostro paese (“i compiti che la Costituzione e la legge affidano al Csm sono volti ad assicurare l’indipendenza della magistratura, pilastro della nostra democrazia e sancita dalla Costituzione”) sono state istantaneamente utilizzate per quello che non sono: un monito, come ha suggerito ieri Liliana Milella su Repubblica online, finalizzato ad arginare ogni tentativo di intervenire sullo strapotere dei magistrati italiani e un monito finalizzato a considerare anticostituzionale ogni tentativo di lavorare a una migliore separazione tra i poteri italiani. Quello che la grancassa del circo mediatico-giudiziario eviterà però con cura di dire è che, negli ultimi mesi, l’impegno del capo dello stato, sul fronte della giustizia, ha come anticipato alcuni dei temi garantisti sollevati in questi giorni dal ministro Carlo Nordio e giusto un anno fa, il 3 febbraio, nel giorno del discorso per il suo secondo insediamento al Quirinale, fu proprio Sergio Mattarella a ricordare quanto lavoro deve ancora fare la magistratura per “corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e di credibilità”, quanto la magistratura debba superare “logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono restare estranee all’Ordine giudiziario”, quanto siano oggi “fortemente indeboliti nella coscienza dei cittadini” due princìpi “preziosi e basilari della Costituzione” come “l’indipendenza e l’autonomia” e quanto sia alto oggi il “timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone”. 

 

E la ragione per cui, quando elenca in pubblico e in privato le ragioni che dovrebbero spingere il paese a lavorare per ridare maggiore credibilità alla giustizia e alla magistratura, Mattarella cita spesso la Costituzione ha a che fare con un tema misteriosamente rimosso dagli azionisti di maggioranza del partito della gogna. Un tema semplice, lineare e basilare, che coincide con un concetto importante: i veri nemici della Costituzione non sono coloro che cercano di lavorare a un riequilibrio tra i poteri, provando magari a combattere gli orrori del circo mediatico-giudiziario, ma sono coloro che, mentre fingono di difendere la Costituzione, non fanno altro che calpestarla.

 

E così non troverete mai nessun azionista del partito unico della gogna ricordare cosa prevede l’articolo 15 della Costituzione nel passaggio in cui stabilisce quanto sia miserabile spacciare per diritto di cronaca il diritto allo sputtanamento (la libertà e la segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni sono inviolabili e la loro limitazione può avvenire non in modo sistematico ma solo in seguito a un atto motivato dell’autorità giudiziaria). E così non troverete mai nessun azionista del partito unico della gogna ricordare cosa prevede l’articolo 27 della Costituzione nel passaggio in cui stabilisce che non basta un sospetto a condannare un indagato (ogni imputato è innocente fino a sentenza definitiva). E così, ancora, non troverete mai nessun azionista del partito unico della gogna ricordare, a proposito di ergastolo ostativo, che la frase “le pene non devono essere volte unicamente alla punizione del reo ma devono innanzitutto mirare alla sua rieducazione” non compare nei diari di Licio Gelli ma è la Costituzione, ancora all’articolo 27.

 

E così, ancora, se proprio dobbiamo essere precisi, non troverete mai nessun azionista del partito unico della gogna ricordare, a proposito di necessario equilibrio tra i poteri, che le oscenità prodotte dal processo mediatico sono duramente condannate non dal garantismo utopistico ma dalla stessa Costituzione, che all’articolo 111 prevede che ogni processo si svolga nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, di fronte a un giudice terzo e imparziale, all’interno di un percorso che garantisce alla persona accusata di un reato di essere informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico e di avere diritto a una durata ragionevole del processo.

 

Le vestali della Costituzione utilizzeranno forse le parole sagge e misurate di Mattarella sulla magistratura per dare manforte alla grancassa del circo mediatico-giudiziario (un circo intenzionato a considerare come un mafioso chiunque voglia limitare gli abusi mediatici delle intercettazioni, chiunque voglia ricordare che il diritto di cronaca non è il diritto allo sputtanamento, chiunque voglia arginare la totale arbitrarietà delle procure intervenendo sui pieni poteri che hanno i magistrati italiani). Ma nel farlo dimenticheranno di ricordare una verità che il capo dello stato conosce e che gli azionisti del partito della gogna faticano ad ammettere: difendere una magistratura che rivendica i pieni poteri, che alimenta il processo mediatico e che vede qualsiasi valutazione esterna come lesa maestà non significa difendere la Costituzione, ma significa semplicemente provare a infangarla ogni giorno di più. Non ci provate, grazie.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.