(foto Ansa)

Lo schiaffo di realtà per Meloni sull'ergastolo ostativo

Ermes Antonucci

Dopo mesi di propaganda, la premier costretta a rinnegare se stessa sul "fine pena mai" (in contrasto con la Costituzione). Per l'imbarazzo ricicla le più antiquate fantasie dell’antimafia complottista

Dopo aver trascorso gli ultimi mesi della scorsa legislatura ad accusare il governo Draghi e il Parlamento di voler favorire la mafia abolendo l’ergastolo ostativo (dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale), dopo aver annunciato in campagna elettorale il salvataggio di quell’istituto perché “non possiamo darla vinta a Totò Riina”, dopo essere stata nominata premier e aver annunciato nel suo discorso programmatico di voler impedire che “venga meno uno degli istituti più efficaci nel contrasto alla mafia che è il carcere ostativo”, ieri Giorgia Meloni ha dato notizia dell’approvazione in Consiglio dei ministri di un decreto legge che abolisce l’istituto dell’ergastolo ostativo.

 

Il decreto riprende, infatti, il disegno di legge approvato alla Camera lo scorso 31 marzo, con l’astensione di Fratelli d’Italia, che lo ritenne troppo morbido nei confronti degli ergastolani. Da qui l’imbarazzo mostrato ieri  in conferenza stampa da Meloni. Ricevuto lo schiaffo di realtà (l’ergastolo ostativo non può non essere abolito, in quanto in contrasto con la Costituzione), la premier si è spinta ad affermare che quella contenuta nel decreto è una “norma figlia dell’insegnamento di Falcone e Borsellino, una norma a lungo osteggiata dalla criminalità organizzata, tanto da finire nelle famose trattative e nei papelli della mafia”. Un linguaggio degno delle  più antiquate fantasie dell’antimafia complottista, fondate su trattative mai avvenute e su papelli rivelatisi farlocchi. 

 

Ben diversi i toni utilizzati dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che senza tanti giri di parole ha spiegato che il testo varato dal governo “accoglie l’indicazione della Consulta”. L’11 maggio 2021, infatti, la Corte costituzionale ha stabilito  l’incompatibilità con la Costituzione delle norme che individuano nella collaborazione con la giustizia l’unica condizione di accesso alle misure premiali e alternative previste dall’ordinamento penitenziario per i condannati all’ergastolo per reati ostativi (mafia, terrorismo e non solo). L’istituto risulta infatti contrario al principio di finalità rieducativa della pena.

 

Poiché, però, la sentenza di incostituzionalità avrebbe determinato un effetto “demolitorio” sul sistema normativo, la Consulta ha  concesso al Parlamento un periodo di un anno, poi aumentato di altri sei mesi, per varare una riforma in materia. Questo è avvenuto solo a metà, con l’approvazione della riforma alla Camera, ma non al Senato, a causa della fine anticipata della legislatura. Visto che l’8 novembre la Consulta tornerà a esprimersi sul tema, il governo ha ritenuto di riprendere in un decreto legge il testo approvato dalla Camera, nella speranza di ottenere altro tempo dai giudici costituzionali. 

 

Il disegno di legge approvato dalla Camera lo scorso marzo da tutti i partiti, con l’esclusione di FdI, Italia viva e Azione (astenutisi), ricalca le indicazioni fornite dalla Consulta, stabilendo che i detenuti che vogliono accedere ai benefici penitenziari, senza aver collaborato, devono allegare “elementi specifici, diversi e ulteriori” rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione al percorso rieducativo e “alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza”. Questo “al fine di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”. 

 

I penalisti si sono affrettati a bollare il testo come “incostituzionale”, ma esso non fa che riprendere paletti già indicati dalla Consulta. Piuttosto, a preoccupare sono le parole di Meloni su possibili “miglioramenti” del provvedimento in sede parlamentare, cioè sull’inserimento di ulteriori paletti che renderebbero – questi sì – il testo incompatibile con le indicazioni dei giudici costituzionali.

 

Sarà dunque sulla  conversione in legge del decreto che tornerà a giocarsi la partita tra forcaioli e garantisti. Per il momento, dopo anni di propaganda, Meloni ha dovuto fare i conti con la dura realtà di governare.