Marta Cartabia (Ansa)

viva il garantismo

Un bel brindisi per il bavaglio e per la presunzione d'innocenza

Claudio Cerasa

Regolare il rapporto malato tra giornalisti e procure è impossibile ma porre paletti può aiutare. Perché la legge Cartabia aiuta a capire la differenza tra libertà di stampa e libertà di sputtanamento

Se questo è un bavaglio, beh, allora nessun dubbio: lunga vita al bavaglio. Per tutti coloro che pensano che il rapporto morboso che esiste tra il mondo delle procure e quello del giornalismo sia uno dei drammi irrisolti del nostro paese, la giornata di oggi promette di avere qualcosa di speciale, perché è la giornata in cui entra in vigore una legge dal forte significato simbolico. La legge è quella che recepisce la direttiva numero 2016/343 dell’Unione europea ed è quella che rafforza un concetto della nostra Costituzione che teoricamente dovrebbe essere chiave nel nostro stato di diritto: la presunzione di innocenza.
 
Gli elementi più significativi e più discussi della direttiva sono quelli che si trovano all’articolo numero due, che “introduce il divieto, per le autorità pubbliche, di presentare all’opinione pubblica l’indagato o l’imputato in un procedimento penale come colpevole, prima che sia intervenuto un provvedimento definitivo di condanna”, e all’articolo numero tre, secondo il quale “le informazioni sui procedimenti penali fornite alla stampa devono assicurare il diritto della persona sottoposta a indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino alla condanna definitiva”.
 

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Prima di metterci tutti a ridere pensando che sia possibile regolamentare con una legge i rapporti tra i pm e i giornalisti – già il fatto che sia necessaria una norma per far rispettare un articolo della Costituzione (il 27) ci fa capire lo stato di salute del garantismo nel nostro paese – vale la pena provare a capire se la legge in questione possa davvero cambiare qualcosa oppure no. La risposta è sì. E ci sono diverse ragioni per dire che la legge Cartabia offre paletti per mettere un bavaglio non alla libertà di stampa ma alla libertà di sputtanamento. Il primo paletto riguarda la forma, che mai come in  questo caso è anche sostanza: ai magistrati, e ai giudici, è fatto divieto di dare i nomi alle inchieste (Mafia capitale adios) e i pm e gip hanno il dovere di usare sempre la definizione di presunto innocente quando parlano delle indagini (il pm, come prevede il nostro ordinamento, ha l’obbligo di ricercare le prove non solo a carico ma anche a discarico di un indagato).

 

Il secondo paletto riguarda quella che è la vera novità introdotta dalla norma: consentire solo ed esclusivamente al procuratore capo di dare informazioni relative alle conclusioni delle indagini attraverso un comunicato stampa o una conferenza stampa previa autorizzazione del procuratore generale della Repubblica (i dettagli dei provvedimenti delle ordinanze potranno essere chiesti dai giornalisti al procuratore capo). Nulla purtroppo vieta che prima della conclusione delle indagini avvenga ciò che avviene già oggi e che per legge non dovrebbe accadere, ovvero che atti coperti da segreto vengano passati da qualche manina lesta ai pappagalli delle procure, ma la nuova normativa introduce alcuni divieti che sarebbe sbagliato considerare secondari: se è vero che la procura parla con una sola voce e se è vero che l’unica occasione in cui il capo di una procura può esporre i dettagli di un’indagine è la conferenza stampa, è altrettanto vero che (a) i magistrati che lavorano a un’inchiesta non potranno più rilasciare interviste su quell’inchiesta mentre quell’inchiesta è in corso d’opera e che (b) i magistrati che guidano l’inchiesta non potranno più trasformare le proprie inchieste in un’occasione per occupare in pianta stabile il palinsesto televisivo e se lo faranno la loro azione dovrà essere automaticamente giudicata dalla commissione disciplinare del Csm.

 

Non basteranno certo queste norme per mettere un freno alle oscenità del circo mediatico-giudiziario, ma l’effettiva osservanza di queste regole può offrire qualche cartuccia per combattere l’unica forma di populismo che gli autoproclamati populisti d’Italia non sembrano avere intenzione di combattere fino in fondo: quel populismo giudiziario che facendo leva sulla collusione tra magistrati spregiudicati e giornalisti velinari ha spacciato per libertà di stampa la libertà di sputtanamento. Se questo è un bavaglio, viva il bavaglio.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.