Roma, 30 marzo 1979, apertura del 15 congresso PCI, da sinistra Umberto Terracini, Gerardo Chiaromonte e Pietro Ingrao (LaPresse)

UNA DRAMMATICA STORIA ITALIANA

Gerardo Chiaromonte, il comunista che difese fino alla fine Giovanni Falcone

Umberto Ranieri

Lo storico esponente riformista del Pci si schierò con il magistrato siciliano quando fu sottoposto a un infame linciaggio diretto a stroncarne la reputazione e il decoro professionale

Un comunista difese Giovanni Falcone quando fu sottoposto a un infame linciaggio diretto a stroncarne con vili e spregevoli accuse la reputazione e il decoro professionale. Parlo di Gerardo Chiaromonte, storico esponente riformista del Pci, nei suoi ultimi anni presidente della Commissione antimafia. Gerardo, come Emanuele Macaluso, ben sapeva della avversione di gran parte del suo partito verso Giovanni Falcone. Il 30 gennaio del 1992 la prima sezione penale della Cassazione conferma la sentenza del maxiprocesso di Palermo riconoscendo la bontà del teorema Buscetta, l’unitarietà di Cosa nostra e l’esistenza della cupola mafiosa. Gerardo ripercorre sull’Unità del primo febbraio i passaggi per giungere a un tale storico verdetto, ricorda i veleni e i “corvi” indirizzati contro Falcone e afferma che il giudizio della Cassazione “dà anche ragione a quanti di noi non si sono mai lasciati trascinare da movimenti, “reti” e professionisti oltranzisti dell’antimafia in cerca di voti, in manovre oscure che pur ci sono state nel Palazzo di giustizia della capitale siciliana e fuori di esso”. Insomma, anche nel partito erede del Pci c’è chi non ha timore a prendere le parti del direttore generale del ministero di Grazia e Giustizia.

 

L’Unità riporterà su sette colonne le accuse di Leoluca Orlando rivolte a Falcone di “tenere chiuso nei cassetti della Procura le carte che portano ai mandanti politici degli omicidi eccellenti”. Contestazioni che Falcone smonterà, il 15 ottobre del 1991, dinanzi alla prima commissione del Csm. Nel corso di quella seduta, Falcone ribadirà con forza che “non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo”. Gerardo interverrà anche in quella occasione per dire che “negli interrogatori del pentito Marino Mannoia, Falcone agì correttamente”. Si giungerà poi alla stretta intorno alla scelta del procuratore della Direzione nazionale antimafia. Falcone è la soluzione naturale ma nella commissione incarichi direttivi del Csm, il 25 febbraio del 1992, il candidato che ottiene il maggior numero di consensi è Agostino Cordova per il quale si schierano il laico del Pds, il rappresentante di Md e il verde. Falcone conquista due voti. La partita è rinviata al plenum del Csm. Il 3 marzo sull’Unità compare un intervento di Alessandro Pizzorusso membro laico del Csm per conto del Pds. Il Titolo è tranchant, “Falcone super procuratore? Non può farlo, vi dico perché”. E’ Cordova il prescelto della sinistra sia politica che giudiziaria!

  

Il 17 aprile del 1992, ad un mese all’assassinio di Falcone, Gerardo Chiaromonte scriverà sull’Unità la sua ultima difesa del magistrato siciliano. “Non posso tacere, di fronte all’argomento che circola in alcuni ambienti, secondo il quale Giovanni Falcone avrebbe tutte le qualità per essere nominato procuratore nazionale antimafia se non ci fosse l’ostacolo di essere “amico” di Martelli. Tale argomento mi sembra… inutilmente offensivo per un uomo come Falcone che fu definito a suo tempo “amico” del Pci da quelli che volevano eliminare il pool di Palermo, che successivamente, quando denunciò per calunnia il “pentito” Pellegriti fu definito amico di Andreotti e di Lima. La mia opinione è che Falcone sia un magistrato che ha dato prova di sé nella lotta contro la mafia anche a rischio della vita, che crede nelle sue idee e lavora per realizzarle. Tali idee sono ovviamente opinabili ma è offensivo scambiare per tentativi di compiacere volta a volta questo o quel potente della politica”.

 

La verità è che Gerardo comprese l’importanza della strategia di lotta alla criminalità organizzata sostenuta da Giovanni Falcone. Un disegno che nasceva sia dall’esperienza vissuta dal magistrato con il pool a Palermo, sia dai suoi convincimenti circa gli assetti della magistratura. Il nuovo codice di procedura penale per Falcone consentiva di rendere più efficiente la figura del pubblico ministero. Della delicatissima questione egli ne parlò coraggiosamente nella intervista a D’Avanzo nell’autunno del 1990: “…le logiche che presiedono all’acquisizione delle fonti di prova devono essere tenute nettamente distinte dalla valutazione della prova. Il pm che nel processo è una parte deve vedere questi poteri rafforzati e sempre meno assimilati a quelli del giudice”.

 

Circa il timore di assoggettamento dell’inquirente al governo, rispose: “Di per sé non mi scandalizzerebbe un pm dipendente dall’esecutivo… non stiamo discutendo di categorie immutabili… l’Italia è uno dei pochi paesi dove la pubblica accusa non è dipendente dall’esecutivo tuttavia ciò non è servito granché alla lotta contro la criminalità organizzata”. E aggiunse, “anch’io sono convinto che l’indipendenza del pm vada salvaguardata e protetta. Ma la indipendenza non è un privilegio di casta. Serve a garantire la efficacia dell’organo. In un processo penale ispirato alla logica accusatoria non vi è spazio per quanto attiene a mafie, camorra e ‘ndrangheta per un’organizzazione orizzontale, il principio gerarchico è irrinunciabile”.

  

E concluse: “Io sono d’accordo con la Superprocura e contrario a soluzione intermedie”. La sua strategia per combattere la criminalità e alcune sue idee suscitarono inquietudine e riprovazione in settori della magistratura. A Roma, al ministero di Grazia e Giustizia, proverà a fare andare avanti il progetto di un organismo che potesse con maggiore efficacia condurre il contrasto alla mafia. Collaboreranno con lui due giovani e colti magistrati: Loris D’Ambrosio e Giannicola Sinisi. Il Guardasigilli Claudio Martelli avrà l’intelligenza di intendere la portata del progetto di Falcone e di sostenerlo.

  

Il nuovo organismo, Falcone tenne sempre a precisarlo, sarebbe stato un supporto per l’azione investigativa e avrebbe contro la mafia mobilitato il complesso delle risorse dello stato. Claudio Martelli non esitò, sperando di ridurre le ostilità e disponendosi positivamente al confronto con i critici, a eliminare aspetti controversi del progetto quali i rapporti formalizzati del superprocuratore con il potere esecutivo e legislativo. La critica tuttavia non si attenuerà. A opporsi fu un insieme di posizioni ostinatamente pregiudiziali. Paolo Borsellino nell’intervento pronunciato alla commemorazione di Falcone a Palermo il 25 giugno dirà: “La Superprocura era lo strumento per ricreare in campo nazionale e con le leggi dello stato le esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che le leggi le prevedessero… nella sua breve esperienza ministeriale egli lavorò per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura”.

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