Dei processi e delle pene, dialogo su un abisso civile

Alessandro Barbano e Vittorio Manes

La “campagna morale” per l’abolizione della prescrizione ha le sembianze accattivanti della lotta all’impunità e del sostegno alle vittime del reato. Ma nasce dall’idea di una giustizia con pretese assolutistiche. Una potente macchina di dolore umano

Caro Vittorio, non ti pare che il confronto politico sulla prescrizione racconti tutto intero l’abisso civile in cui il paese s’è cacciato? Per capirne la portata, bisogna varcare le coordinate processuali entro cui si colloca – e cioè l’efficacia dell’azione penale o piuttosto del diritto alla difesa di fronte ai tempi lunghi del giudicato – e portarlo dentro la società. Solo così si può cogliere quel rapporto con la vita e con la morte che esso implica, e il senso di quella relazione con “l’altro da noi” che si chiama giustizia, e di cui la prescrizione è indizio.

  

C’è un dibattito che precede questa vicenda e ci aiuta a spiegare le questioni in gioco: quello sulla sostenibilità e sulla giustificazione del cosiddetto ergastolo ostativo, cioè una pena senza fine e senza possibilità di accedere a qualsiasi misura alternativa al carcere e a ogni beneficio penitenziario, a meno che il condannato non decida di pentirsi e collaborare con la giustizia. Le sentenze con cui, prima la Corte europea dei diritti dell’uomo e poi la Consulta hanno censurato l’irragionevole automatismo di questo istituto e la debole presunzione di pericolosità che lo sosteneva, sono state accolte da un coro di sdegno che, dai magistrati ai politici, dai giornalisti agli opinion leader più impegnati su mafia e terrorismo, è giunto fino alla gente comune. Pochi hanno compreso che quelle pronunce suonano come una sveglia per un paese che è andato via via smarrendo la simmetria tra responsabilità colpevole e sanzione, che pure distingue la democrazia dai regimi. In un quarto di secolo la pericolosità sociale è diventata la vera fonte di legittimazione dell’afflittività penale, dilagando a macchia d’olio e finendo per sostituire la prova con il sospetto. Nei codici, nella giurisprudenza e nell’opinione pubblica. Nel caso dell’ergastolo ostativo, essa è assunta con una presunzione automatica: anche se non più parte dell’associazione criminale, anche se non più in contatto con i suoi ex soci, anche se affrancato moralmente e redento, è “pericoloso” chi all’epoca dei fatti non abbia collaborato con il pm. Perché il tempo della vita per lui si è fermato per mano della giustizia.

 

Chiudere la cella e gettare le chiavi è il pensiero unico che racconta il nostro tempo. Mi chiedo perché questo accada. Perché la giustizia, debordando dai limiti della sua umana finitezza, è diventata la più grande leva di risarcimento sociale che la democrazia italiana conosca

C’è un riflesso sociale di questa ideologia giudiziaria. La si coglie per esempio nel dibattito sulla concessione del reddito di cittadinanza agli ex brigatisti, censurata dalla gran parte della stampa italiana come uno scandalo. Non ha fatto eccezione l’opinion leader che pure rappresenta il simbolo di un certo buonismo politically correct, Massimo Gramellini. Nella sua rubrica sul Corriere della Sera, intitolata “Il caffè”, ha scritto senza alcun dubbio di stare dalla parte del giusto: “Con le mie tasse preferirei che si finanziassero le vittime, non i carnefici, compresi quelli che si atteggiano a vittime”. “E allora dite che un’assassina può morire di fame, lei e tutta la sua stirpe”, gli ha risposto dalle colonne del Foglio Massimo Adinolfi, costretto ad ammettere un’amara realtà: “Nessuno ha il coraggio di sostenere che un aiuto economico a una persona agli arresti domiciliari e con due figli a carico non è affatto una cattiva misura. Non si trova uno straccio di parlamentare, ma neanche un magistrato, che prenda in faccia il vento dell’impopolarità e dica: forse è giusto, forse ha senso, forse può servire”. Chiudere la cella e gettare le chiavi è il pensiero unico che racconta il nostro tempo.

 

Caro Vittorio, mi chiedo perché questo accada. Perché la giustizia, debordando dai limiti della sua umana finitezza, è diventata la più grande leva di risarcimento sociale che la democrazia italiana conosca. Tu calchi le aule dei tribunali e della Cassazione, ma frequenti anche da docente e da giurista quelle universitarie, dove si fa la dottrina e dove migliaia di studenti si formano alla conoscenza e al sentire di ciò che davvero è legge. Com’è accaduto che il tuo sapere abbia smesso di portare la sua saggezza e il suo equilibrio nella società? Com’è accaduto che una parte di esso si sia piegato alla tentazione di usare questa potenza simbolica, che l’idea di giustizia porta con sé, per fini che con la giustizia hanno poco a che vedere, e un’altra parte se ne sia stata rannicchiata in un’astensione prudente e rassegnata, rinunciando a sfidare il senso comune?

 

Ricordo che, ormai quarant’anni fa, quando incontrai il diritto penale in un’aula dell’Università di Bari, la prescrizione era anzitutto una risposta dell’ordinamento al divenire della condizione umana, per la quale si cambia nel tempo. Lo era stata, del resto, anche per quei giuristi fascisti che pure con il codice Rocco avevano fatto strame delle garanzie. La progressiva perdita dell’interesse punitivo da parte dello stato e la progressiva diluizione dell’allarme sociale destato dal reato erano in relazione potenziale con l’idea che, dietro l’imputazione del “reo”, c’è sempre la condizione unica e irripetibile di un uomo. Che potrebbe non essere domani ciò che è stato ieri. Tanto da rendere la funzione rieducativa della pena non solo inattuale, perché la rieducazione in ipotesi potrebbe essersi già compiuta, ma addirittura controproducente, poiché disincentivante rispetto al recupero della legalità.

 

Chi oggi ancora ragionasse, tenendo questi punti fermi nel dibattito pubblico, si sentirebbe come un marziano, dovendo constatare un ribaltamento radicale del ruolo della prescrizione. Il cui stop finisce per diventare il rimedio di un sistema malato e al tempo stesso la sua fonte di legittimazione, secondo un paradigma di questo tipo: la propaganda giustizialista proietta e amplifica nella società una domanda di giustizia risarcitoria che essa stessa non può soddisfare. Nello iato che si apre tra le aspettative di giustizia crescenti e la limitatezza delle risposte che il sistema può fornire, l’imprescrittibilità rappresenta la garanzia di un’afflittività compensativa. Che eterna l’azione penale in chiave punitiva e dimostra che, in qualche modo, il giustizialismo ha una sua ragione di esistere. Perché dispone di una pena accessoria che, di fronte alla macchina ingessata dell’ordinamento giudiziario, ai suoi ritardi, alle sue asimmetrie e ai suoi privilegi, restituisce al processo la funzione di giusta pena che ogni ideologia giustizialista da sempre gli assegna. Sul presupposto che, a prescindere da una condanna, tutti siamo potenzialmente colpevoli.

Si compie così il paradosso per cui la giustizia diventa la più potente macchina di dolore umano non giustificabile. Mi chiedo e ti chiedo, Vittorio, era ineluttabile che ciò accadesse?


 

Caro Alessandro,

​le cose stanno esattamente come tu le descrivi, nostro malgrado. Il diritto penale, da tempo esposto ai venti della politica, nell’età del populismo sta subendo una regressione illiberale e autoritaria, dove la pena viene ormai intesa come autentico strumento di vendetta sociale, una risposta truculenta e cieca disancorata da ogni istanza di razionalità e da ogni equilibrio di proporzionalità e, purtroppo, sempre più distante da ogni afflato di umanità.

 

Ti sei accorto della degenerazione del discorso pubblico, su questi temi? Se il lessico della politica si è ormai ridotto a cinquanta parole, quello della politica in materia penale ne conta ancora meno: punire ancora, punire di più, certezza della pena intesa come certezza del carcere, carcere inteso non come luogo di recupero o di risocializzazione del reo – come impone la nostra Costituzione – ma come luogo di marcescenza del colpevole. Le reazioni veementi dopo la pronuncia della Corte costituzionale sull’illegittimità dell’ergastolo ostativo ne sono triste testimone. E in questo vocabolario asfittico e truce si riaffacciano persino pene inumane e degradanti, come la castrazione chimica, nella civilissima Europa dell’illuminismo giuridico, e nell’Italia di Beccaria.

 

Il dibattito attuale sulla riforma della prescrizione si iscrive esattamente in questo contesto, avanzando a colpi di slogan, con la consueta banalizzazione che incalza ogni riforma trainata da questa forma di “oclocrazia punitiva”, o sospinta dal “sano sentimento dei social network”, o dalla Procura della repubblica di Facebook. Il vessillo che accompagna questa rutilante “campagna morale” ha le sembianze accattivanti della lotta all’impunità, e del sostegno alle vittime del reato. Argomenti indubbiamente suadenti, che offrono un altare su cui si è disposti a sacrificare diritti e garanzie secolari, consegnando all’“ergastolo processuale” chi ha la ventura di capitare sotto il radar della giustizia penale.

 

Se questa riforma entrerà in vigore, gli indagati e imputati – anche chi paradossalmente è stato assolto in primo grado – saranno “imputati per sempre”, “eterni giudicabili”: trattati di fatto come “presunti colpevoli” giacché li si abbandona alla morsa punitiva dello stato senza termine. Il modello sembra quello di una giustizia infinita, con pretese assolutistiche, simile alla giustizia divina, non certo alla giustizia degli uomini: fiat iustitia et pereat mundus. Chissà se di questo passo arriveremo a riesumare il processo ai defunti, come nel Medioevo.

 

Come sai, contro la riforma della prescrizione si è schierata, unanime, non solo la maggioranza degli avvocati penalisti italiani, ma anche numerosissimi e autorevoli professori di diritto, anche non penalisti, e molti magistrati, altrettanto autorevoli e rappresentativi. Ma la riforma va avanti, imperterrita, con l’incedere cieco che solo il sonno della ragione può spiegare.

 

Poco importa, infatti, misurare questa soluzione – l’imprescrittibilità di fatto dopo la sentenza di primo grado, di condanna o anche di assoluzione – con l’attuale condizione di cancrena della giustizia penale italiana, dove i diversi gradi di giudizio si misurano in anni – spesso molti anni – e non in mesi, come nei restanti paesi europei.

 

Poco importa se questa ricetta non si addice a un paese dove già si punisce moltissimo, perché i reati vigenti sono diverse decine di migliaia, e dove si persegue moltissimo, perché centinaia di migliaia sono le persone sottoposte a indagine, che dopo la sentenza di primo grado resteranno – da domani – eterni giudicabili. Poco importa se una simile riforma sbilancerà gli equilibri dello stato di diritto, destabilizzerà le sue conquiste liberali, emancipando la pretesa punitiva dello stato da ogni limite, e trasformando i cittadini in sudditi di un Leviatano che può disporre sine die delle loro vite, assoggettandole a sequestro processuale sine die.

 

Poco importa, anche, se questa riforma non risolverà il problema che si prefigge di curare, visto che la stragrande maggioranza delle prescrizioni – oltre il 70 per cento – si “consumano” in primo grado, e di queste la più parte nella fase delle indagini preliminari.

 

Poco importa, ancora, se le Corti d’appello – già oggi vessate da un carico abnorme – rischieranno il collasso, investite da un numero di procedimenti non più filtrato da quello che, oggi, è l’unico meccanismo deflattivo di una qualche significatività.

 

Poco importa, infine, se questa riforma non soddisferà le richieste di giustizia delle vittime, né le loro pretese risarcitorie, perché il presumibile allungamento dei tempi processuali non darà le risposte celeri e certe che chi subito un reato e patito un danno giustamente e doverosamente si attende.


  

Caro Vittorio,

è proprio sulla tempistica che la riforma mostra il suo volto propagandistico e scopre le bugie che l’accompagnano. Nelle intenzioni dei suoi sostenitori lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado dovrebbe impedire ai corruttori, rei per antonomasia del processo mediatico, di farla franca lucrando l’impunità sulle lunghezze della causa, con una tattica dilatoria attribuibile ai difensori. La casistica della prescrizione, che riguarda il 10 per cento dei processi, dimostra invece che l’estinzione del reato per decorso del tempo dipende dall’inefficienza della risposta giudiziaria. Anzitutto perché, come tu giustamente fai notare, nella maggior parte dei casi la prescrizione interviene nella fase delle indagini preliminari, prolungatesi in misura abnorme, e comunque prima della sentenza di primo grado. In secondo luogo perché essa è inversamente proporzionale alla capacità organizzativa di tribunali e corti.

 

A questa conclusione è giunta un’indagine conoscitiva, ampiamente ignorata, commissionata dall’ex Guardasigilli Andrea Orlando quattro anni fa e condotta dal capo del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, Mario Barbuto. Lo studio partiva da una domanda: perché alcuni tribunali hanno performance buone e altri no? La risposta che è giunta dall’analisi dei dati sfata la vulgata che fa corrispondere più prescrizioni a organici carenti di giudici e cancellieri: ci sono buone performance in tribunali con crisi di personale e pessime performance in tribunali che sono quasi a regime. Vuol dire che non c’è una corrispondenza biunivoca fra carenza di risorse e deficit di risposta giudiziaria.

 

Uno studio sfata il luogo comune che la velocità sia nemica della qualità delle sentenze. Si possono fare processi rapidi, scongiurando l’aumento delle prescrizioni. Che non sono in relazione con la tattica dilatoria dei difensori, ma piuttosto con l’efficienza dei singoli magistrati e dell’intero sistema giudiziario

Allo stesso modo non esiste relazione tra performance e indice di litigiosità, che stima in un dato territorio la percentuale delle cause per ogni 100.000 abitanti. Ci sono tribunali in cui la litigiosità è molto alta con ottime performance, altri dove è bassa con pessime performance, e viceversa. Vuol dire che l’accumulo di prescrizioni è diretta conseguenza solo del modello organizzativo degli uffici giudiziari. “La chiamano leadership – disse Barbuto nella sua audizione parlamentare –, è una parolaccia che ai miei colleghi e a tutto il mondo dalla magistratura non piace per niente. Possiamo chiamarla anche in un altro modo, ma in ogni caso intendiamo la capacità di organizzazione”.

 

C’è poi uno studio dell’Università Statale di Milano, pubblicato sul sito lavoce.info, che sfata un altro luogo comune: e cioè che la velocità sia nemica della qualità delle sentenze. La ricerca mette a raffronto la durata media delle cause in tutti i tribunali italiani con il cosiddetto tasso di riforma, e cioè la percentuale di pronunce riformate tra il primo grado e l’appello, e tra l’appello e il giudizio di Cassazione. Tale indice è assunto come misura inversamente proporzionale della fondatezza e della qualità dell’offerta giudiziaria: più è basso, più sono le sentenze inattaccabili e, quindi, migliori. La sorpresa viene dal fatto che l’indice non è in relazione con la velocità dei processi. Tant’è vero che due tribunali molto diversi come Trento, primo per rapidità delle pronunce, e Salerno, ultimo nella medesima classifica, hanno lo stesso tasso di sentenze riformate. Vuol dire che si possono fare processi rapidi, lavorando con efficienza e scongiurando l’aumento delle prescrizioni. Che, perciò, non sono in relazione con la tattica dilatoria dei difensori, ma piuttosto con l’efficienza dei singoli magistrati e dell’intero sistema giudiziario.

 

A questo punto fermare sine die il tempo della prescrizione, anziché affrontare le vere cause che la originano, significa voler ignorare la realtà e scaricare tutti i mali della giustizia sull’imputato. Che resta, a prescindere dalla sua presunta innocenza o, piuttosto, dalla sua stessa colpevolezza, il soggetto più debole del sistema. Non ti pare, caro Vittorio, che la riforma mascheri dietro la propaganda giustizialista il più feroce, ancorché subdolo, autoritarismo?


 

Caro Alessandro,

anche qui sono, per la gran parte, d’accordo con le tue osservazioni. Aver anteposto l’entrata in vigore del “blocco” della prescrizione alla riforma del processo, che ne dovrebbe assicurare la durata ragionevolmente breve, è una inversione di metodo davvero sorprendente – per usare un eufemismo – sul piano logico e assiologico.

 

E’ incongrua sul piano logico, perché si pospone la risoluzione della patologia principale – ossia la irragionevole durata dei processi – all’eliminazione di quello che oggi, nostro malgrado, rappresenta l’unico antidoto di sistema, ossia la prescrizione dei reati dopo che l’imputato è rimasto per molti anni “in attesa di giudizio”.

 

Ed è un assurdo sul piano assiologico – ossia sul piano dei valori – perché è come chiedere ai cittadini una liquidazione anticipata dei loro diritti – quasi a mò di caparra – a fronte della contropromessa che un giorno, forse, questa quota di diritti gli sarà restituita in altra forma. Il tutto “salvo intese”, ovviamente.

 

Si pensi a una macchina dotata di un motore potentissimo, perché tale è il potere punitivo dello stato, “una tra le più penetranti e invasive manifestazioni del potere sovrano dello stato-apparato” – per usare le parole della nostra Corte costituzionale – capace di porre “perennemente in soggezione l’individuo” (sentenza n. 200 del 2016): di fronte a questa macchina ultrapotente, oggi si chiede di eliminare l’unico freno rimasto a tutela dei cittadini e dei loro diritti dicendo che un giorno, forse, saranno introdotti limiti di velocità, o sarà depotenziata la cilindrata del motore. Pazienza se intanto chi sarà imputato per un qualsiasi reato – che alla fine potrebbe risultare colpevole ma anche innocente, e che si presume tale sino a sentenza definitiva – sarà costretto a salirci sopra, provando l’ebbrezza di un processo senza fine, anche se è stato assolto in primo grado.

 

A questo riguardo, anche l’argomentazione secondo la quale gli effetti di questa riforma illiberale si produrranno solo tra alcuni anni – che suona quasi come una excusatio non petita – appare davvero risibile, e rappresenta uno dei tanti “falsi miti” che aleggiano su questo tema. Come ha scritto Oliviero Mazza, infatti, non la penserà così chi verrà arrestato il 1° gennaio 2020, e sarà processato per direttissima il giorno dopo: assolto o condannato, dal 2 gennaio 2020 l’eventuale giudizio di impugnazione cadrà nel limbo degli eterni giudicabili. Con buona pace anche dell’altro slogan, secondo il quale la prescrizione sarebbe un salvacondotto per gli imputati “furbi” che hanno maggiori possibilità economiche, e un espediente nelle mani dell’avvocato “chicaneur”: peccato che il rinvio chiesto per un impedimento dell’avvocato, se concesso, è disposto a prescrizione sospesa.

 

Hai ragione, dunque: la riforma del processo penale, dei suoi tempi e di molte disfunzionalità che attualmente lo caratterizzano, dovrebbe essere non solo la priorità, ma la condicio sine qua non per affrontare secondo ragionevolezza il tema della prescrizione. E in questa prospettiva le rilevazioni su efficienza organizzativa, sul rapporto tra produttività dei diversi uffici e qualità delle sentenze – pur con tutta la cautela necessaria – dovrebbero essere considerate con attenzione. Ricordando che anche la giustizia penale è un servizio, e la sua efficienza si misura sempre, anche, dalla capacità di creare valore pubblico, e dalla fiducia che in questo servizio e in chi lo amministra ripongono i cittadini.

 

Oggi i dati statistici dicono che questa fiducia, in Italia, sia ai minimi storici, con percentuali tra le più basse nel contesto europeo: e solo uno sguardo miope e demagogico può pensare di accrescerla eliminando, di fatto, la prescrizione.

Di più su questi argomenti: