Veduta del carcere, con il corpo centrale in primo piano (via Wikipedia)

Il carcere di Santo Stefano fa i miracoli: fa diventare garantisti tutti

Simonetta Sciandivasci

Un documentario su Rai Storia che parla di giustizia giusta

Roma. Il carcere di Santo Stefano è stato chiuso nel 1965. L’isola che gli dà il nome, una delle Ponziane più vicina a Ventotene, però, è ancora sotto il suo scacco, la sua ombra, la sua anima. L’isola di Santo Stefano è il carcere di Santo Stefano (qui lo chiameremo anche SS). E non potrà che essere così per sempre. Non conta che sui fondali del mare intorno ci siano anfore e tracce di traffici commerciali, né che una volta abbiano provato a farci un albergo, e che un sacco di altre volte molti cervelli abbiano immaginato piani di recupero, innovazione, cambiamento. I ministri Matteo Salvini e Alfonso Bonafede, I Due carabinieri, dovrebbero andarci in visita un giorno intero, ma non lo faranno perché laggiù non ci sono detenuti da usare come prova della propria efficienza nella lotta al crimine. Ci sono solo fantasmi, e ovunque ci siano fantasmi i vivi devono fare i conti con le proprie ingiustizie. Dovremmo andarci tutti, a Santo Stefano. Però, siccome ci vuole il traghetto, siccome è fuori mano ed è inverno eccetera eccetera, possiamo anche accontentarci di guardare il documentario che lo racconta (lunedì sera alle 21 e 15 su Rai Storia, primo appuntamento del ciclo di documentari “I Grandi dimenticati. Storie perdute di capolavori abbandonati”; regia di Matteo Bruno; capoprogetto Luca Parenti; altre puntate sono dedicate al Forte Aurelia di Roma, i Quattro Pizzi di Palermo, la stazione di Canfranc, le Gualchiere di Remole).

   

 

La pianta del Santo Stefano è quella del Panopticon di Jeremy Bentham: al centro la torre di controllo (sacro e temporale: c’era la cappella e c’era pure la cabina delle guardie) e intorno le celle, di modo che ai prigionieri fosse chiaro d’essere sorvegliati continuamente. Ciascuna cella era dotata di finestre a bocca di lupo che impedivano ai detenuti di vedere il mare (tuttavia ne sentivano l’odore e il rumore suo e di chi lo abitava o attraversava: è scritto nelle memorie di moltissimi internati). All’SS si scontavano gli ergastoli. Il fine pena mai. La ragione per cui andare a visitare quelle gabbie per uomini sbagliati la spiega a un certo punto uno degli intervistati: “Questo posto è l’espressione massima del fine pena mai, di cosa un uomo può fare a un altro uomo”. Un carcere dismesso è il solo posto al mondo in cui c’è speranza che persino a Salvini diventi chiaro come e perché, stante il sacrosanto principio di responsabilità personale, quando un membro di una comunità finisce in galera, quella comunità ha fallito.

  

Un ferito a morte ha il diritto di levare per sempre il cielo e il mare al suo feritore? Non è importante rispondere (perché è impossibile rispondere), ma domandarselo sì. Sempre. Dovremmo domandarcelo continuamente.

   

Viene raccontato nel documentario che quando Sandro Pertini finì a Santo Stefano (pena: 10 anni e nove mesi; fu avvistato a Pisa da un avvocato fascista di Savona che era lì per andare allo stadio ma non si lasciò sfuggire l’occasione di denunciare l’eversivo comunista), scrisse: “Al pensiero che sarei stato nello stesso carcere dove era stato rinchiuso Luigi Settembrini, mi sentii orgoglioso”. All’SS finirono patrioti, prigionieri politici, carbonari, giacobini, antifascisti: due secoli e mezzo di opposizione e rivoluzione fatte a spese della propria pelle. I trenta minuti di questo documentario bastano a capire che là dentro, per tutto quel tempo, uomini che hanno sbagliato anche solo la parte in cui stare, hanno avuto l’immensa, disgraziata fortuna di conoscere l’uguaglianza. Perché così ha detto De Andrè: il carcere è una realtà non individualista, il massimo dell’essere uguali.