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La "rivoluzione" della Cedu sull'ergastolo ostativo era già nella nostra Costituzione

Gianpaolo Catanzariti e Riccardo Polidoro

Sulla non compatibilità con l’art. 3 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, la Corte di Strasburgo ha ricordato all'Italia che la migliore risposta al delitto è quella del diritto e delle garanzie

Se la sentenza Cedu sul caso “Viola c. Italia” sulla non compatibilità con l’art. 3 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo dell’ergastolo ostativo, quello del “fine pena mai” o ancora del “fine pena 31.12.9999”, fa balzare dalle seggiole tutti noi che crediamo nello stato di diritto, e fa parlare di sentenza “storica”, di “portata rivoluzionaria”… beh, allora, siamo messi proprio male!

 

Ma davvero la Corte Europea ha segnato un’inversione di rotta culturale nel civile mondo occidentale? Davvero ci spingiamo in grida di giubilo a mala pena soffocati in gola?

  

 

Se è così – ed è davvero così – è perché l’Italia, ahinoi, di emergenza in emergenza, si è trasformata da “culla del diritto” nella sua orribile ”tomba”, facendoci stravedere dinanzi alle chiare affermazioni, straordinarie nella loro ordinarietà, contenute nella sentenza del 13 giugno 2019.

  

Ed eccole quelle affermazioni che rimarranno scolpite nei nostri cuori, ma soprattutto nelle nostre menti.

 

“La Corte ricorda che la dignità umana è al centro del sistema messo in atto dalla Convenzione. Non si può privare una persona della sua libertà senza lavorare, allo stesso tempo, al suo reinserimento e senza fornirgli la possibilità di recuperare, un giorno, questa libertà.”

 

Ed a proposito della collaborazione con la giustizia – ovvero mettere qualche altro al posto tuo di ergastolano – quale unico requisito preteso per poter aspirare, un giorno, alla liberazione, i giudici di Strasburgo ci ricordano che “l'assenza della collaborazione non può sempre essere collegata a una scelta libera e volontaria né giustificata dalla persistenza dell'adesione ai valori criminali e dal mantenimento di legami con l'organizzazione mafiosa”, dubitando “sull'opportunità di stabilire un'equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale della persona condannata”, anche perché la collaborazione non sempre è il segno di “un vero cambiamento” o prova esclusiva di “effettiva dissociazione dall'ambiente criminale”. Pur senza collaborazione, esistono “altri indici che consentono di valutare i progressi compiuti dal detenuto” anche come forma di dissociazione dal crimine.

 

“La Corte ricorda che il sistema penitenziario italiano offre una serie di opportunità progressive di contatto con la società – lavoro all'esterno, permessi premio, semi libertà, liberazione condizionale – il cui scopo è quello di favorire il processo di reinserimento del detenuto.

 

Costellare il sistema penitenziario di automatismi preclusivi di un trattamento di risocializzazione costituisce un grave vulnus per il detenuto. “La personalità di un condannato non rimane fissa nel momento in cui il reato è stato commesso. Può evolversi durante la fase di esecuzione della pena, come vuole la funzione di risocializzazione che consente all'individuo di rivedere criticamente il suo percorso criminale e di ricostruire la sua personalità. Per questo, il condannato deve sapere cosa deve fare affinché la sua liberazione possa essere presa in considerazione”. “L'equivalenza tra l'assenza di collaborazione e la presunzione assoluta di pericolosità sociale” cristallizza “la pericolosità dell'interessato al momento della commissione del reato invece di prendere in considerazione il reinserimento e ogni progresso fatto dopo la condanna”, sottraendo al giudice il diritto/dovere “di verificare se il detenuto si è evoluto ed ha progredito sulla via del cambiamento” e se “il mantenimento della detenzione” abbia ancora un senso.

 

Infine, la Corte di Strasburgo, con un monito finale diretto a tutti i Savonarola dei nostri tempi – e non solo – ribadisce come, pur se “i reati per i quali il sig. Viola è stato condannato riguardano un fenomeno particolarmente pericoloso per la società (il fenomeno mafioso, nda), tuttavia la lotta contro questo flagello non giustifica la deroga alle disposizioni dell'articolo 3 della convenzione che vietano in termini assoluti le pene inumane e degradanti”.

  

E’ proprio vero! Leggendole queste frasi ci sembrano – e sono – di portata rivoluzionaria, perché cancellano tutto l’armamentario del “diritto penale del nemico” che dagli anni ’70 in poi, di emergenza in emergenza, questo paese ha messo in piedi e ancora oggi ha mantenuto.

 

E la Corte, nella sua semplicità straordinaria, è costretta a ricordare a tutti noi, “popolo senza più memoria”, che abbiamo una Costituzione che avremmo il dovere di rispettare e attuare e che già contiene in sé quei principi, quei valori, quei diritti non negoziabili che i nostri padri costituenti avevano scolpito nell’art. 27: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

  

E allora la Cedu ci sembra rivoluzionaria proprio perché ci rammenta che la migliore risposta al delitto è quella del diritto e delle garanzie affinché, pur nella difesa della società dal crimine, si dia la possibilità anche – e soprattutto – a Caino di potersi emendare, diventando da assassino del fratello Abele nel “costruttore di città” del libro della Genesi.

  

Avv. Gianpaolo Catanzariti e Avv. Riccardo Polidoro sono Responsabili dell'Osservatorio Carcere UCPI

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