Cinquemila studenti a Scampia contro le baby gang durante una manifestazione dello scorso gennaio (foto LaPresse)

La penisola di Arturo

Piero Tony

Le baby gang e un’Italia senza cultura giuridica e sociale dove si grida solo “mafia”

Terribile, davvero terribile quanto accaduto l’altra settimana in un programma solitamente ben fatto come “Piazza Pulita”. A parte le lucide e composte considerazioni di Maria Luisa Iavarone – madre di Arturo, la giovane vittima accoltellata – e quelle dense di esperienza ed equilibrio del regista Gaetano Di Vaio, a parte questo dopo un bel servizio su quelle che vengono chiamate le baby gang di Napoli ha preso il via un festival di inconcludenze in totale libertà incentrate come al solito – guarda un po’ – su emergenza e criminalità organizzata, ossia camorra e ancora camorra. Da parte di un politico e di un alto magistrato minorile e di un noto neuropsichiatra una raffica di luoghi comuni cinguettati come novità dell’ultima ora, una sequenza di psicologismi diagnosi e proposte di intervento che più improvvisata e strascicata non poteva essere. E’ parsa provvidenziale per gli ascoltatori l’esplosione pirotecnica di un Vittorio Sgarbi incazzatissimo, questa volta perché convinto che il documentario fosse pericolosamente compiaciuto ed agiografico rispetto alle guapperie e ai ceffi di quei poveri cristi dei minori intervistati e dunque come spesso accade rischiasse di fomentare emulazione.

 

In effetti il servizio era parso indugiare più sulla pericolosità e “guapperia” che sulla imbecillità di quei poveretti immaturi. Di un gruppetto di spaventati bulletti suburbani, spavaldi arroganti ambigui e sfuggenti nell’evidente tentativo – è dato di comune esperienza – di dissimulare ignoranza fragilità e paura. Ed aggregati tra consimili (anche questa è norma di vita ben nota ai non accecati da pre-giudizi; “gli uccelli si accoppiano in cielo e i fetenti in terra” si canzonano da quelle parti) per il timore di restare soli e naufragare perché… vi parrà strano… ma qualche volta mancano alternative alla portata di giovani scugnizzelli disadattati e pertanto devianti e sprovveduti. Il quadretto criminogeno era insomma nitido e conforme ai risultati delle tante analisi fatte in materia di bullismo e baby gang: immaturità somma derivante da subcultura di contesto, carenze sociali e familiari tanto vistose da consentire sostanziale randagismo di quartiere, scolarizzazione pressoché assente, emarginazione disperata e disperante.

 

La retorica sui figli del camorristi da togliere alle famiglie e da affidare a “strutture di accoglienza”. Le raccomandazioni di Falcone

Dunque questione di politica sociale oltre che di marcata pericolosità da neutralizzare con trattamenti giudiziari proporzionati visto che, questo è ovvio, mutano le esigenze punitive secondo che un bellimbusto ti accoltelli – come è accaduto ad Arturo – o si accontenti bontà sua di darti un buffetto sulla guancia o di insultarti. Ma soprattutto, si ripete, problemi di politica sociale, come quella giustizia sociale e quella cultura civica che Giovanni Falcone indicava quali principali armi da guerra contro le condotte malavitose. Assenza di famiglia, di scuola, di controlli preventivi di sicurezza sul territorio.

 

Pareva tutto chiaro e invece è diventato tutto confuso per quel festival di parole in libertà: camorra camorra, è questione di camorra, le famiglie camorriste educano i figli solo così, i ragazzi vanno allontanati da simili genitori ed affidati a specializzate “strutture di accoglienza”, per il loro bene hanno bisogno di un contenimento autoritario… e così via.

 

Capito? Non affidati ad un servizio sociosanitario per i necessari interventi di sostegno, orientamento, controllo e mediazione, come in casi simili comunemente si fa. No, i figli dei camorristi vanno tolti alla famiglia e chiusi in luoghi peraltro… inesistenti! Tolti ai genitori incapaci e camorristi per chiuderli in “strutture specialistiche” che però, udite udite, già ora… prima delle suggerite retate… sono insufficienti in numero e capienza e specializzazione professionale (“sì, è vero, prima il personale dovrebbe seguire corsi di formazione ed informazione” in trasmissione ha ammesso delicatamente l’alto magistrato) e che per fortuna da decenni – come tutti dovrebbero sapere – per legge possono essere solo “aperte” ossia senza sbarre, tant’è che il confinamento obtorto collo in codeste strutture prevedibilmente durerebbe non più dello spazio di un mattino, come le rose di de Malherbe.

 

Ma non basta; per elementare ed irrinunciabile equità istituzionale – questo lo cinguetto solo io, sia chiaro, ma era implicito nei loro discorsi – i figli andrebbero naturalmente tolti anche agli affiliati di mafia e ’ndrangheta e Sacra corona unita e delle nuove mafie, transnazionali e non! E vi parrebbe giusto trascurare i figli dei concorrenti esterni in codeste associazioni di tipo mafioso? E vi parrebbero dotati di sufficiente capacità educativa gli affiliati di certe massonerie coperte che allignano nel nostro paese? Capito? Capito perché perfino Vittorio Sgarbi è uscito dai gangheri, di fronte al bravo Corrado Formigli? Deportazione, naturalmente rapida severa e fine a se stessa in quanto emergenziale, non un ordinario e metodico buon governo del sistema; anziché una ben più giusta anche se molto più complessa ed impegnativa protezione socioamministrativa del territorio e delle persone secondo quanto prevede l’art. 118 della Costituzione. E dove deportarli? Nella propria regione o in una qualsiasi anche di culture dialetti tassi di accoglienza diversi? E, ammesso e non concesso che sia lecito rispolverare le sbarre, fino a quando andrebbero tenuti chiusi in codeste “strutture” protette? Fino alla morte dei genitori malavitosi? E cosa farne quando prima o dopo un benedetto giorno venissero dimessi? In quale territorio, in quali famiglie ed a cura di chi dovrebbero essere reinseriti? E’ proprio vero, tanto più facile chiacchierare della parte destruens che di quella construens.

 

La loro è la solita “cultura del cacchio”: pensare di poter aiutare il ragazzo senza aiutare la sua famiglia, ancora “tribunale per i minorenni discoli” del 1934 e non “tribunale per la famiglia” così come attentamente immaginato dai cento progetti e disegni di legge chiusi da anni nel cassetto, coperta corta sul viso con i piedi che restano fuori. Quella “cultura del cacchio” che ancora non riesce a mobilitarsi per attenuare di un infinitesimo abissali disuguaglianze socioeconomiche del mondo responsabili di tanta mortalità minorile (pare alcune migliaia al giorno, per denutrizione e malattie che sarebbero curabili con maggiori risorse a disposizione) ma che di fronte ad un’immagine patetica si commuove, solo per qualche attimo ma si commuove. E a parole, solo a parole, pretende che ogni cucciolo d’uomo – sempre e comunque, anche il figlio del più povero dei disoccupati abbandonati al loro destino – viva in ambiente confortevole, faccia il bagnetto tutte le mattine (esilarante la richiesta dei servizi di allontanare un minore, perché troppo sporco, da una famiglia Rom accampata alla meglio in ricoveri di cartone) e se del caso vada a lezione di inglese pianoforte e golf. “Cultura del cacchio” che ha provato meraviglia leggendo le ultime statistiche ministeriali sulla recidività di chi esce di prigione ossia sulla propensione a delinquere nuovamente dopo la scarcerazione per fine pena: 69% nei casi ordinari, 1% quando gli si trova un lavoro. E’ la “cultura del cacchio” di chi non ricorda o non sa che 250 anni fa Maria Teresa d’Austria prima e Giuseppe II poi pensarono le stesse identiche cose a proposito dei Rom e legiferarono di conseguenza con risultati catastrofici: via da genitori Rom i figli con meno di 5 anni d’età e loro affidamento a famiglie rigorosamente gagè, essendo i Rom incapaci (presunzione di incapacità determinata allora non dall’essere camorristi ma “zingari”) di inculcare nei figli sani ed edificanti sentimenti. O di chi ritiene che, quando i genitori sono fior di delinquenti condannati ad anni di carcere ed i nonni tanta capacità genitoriale sicuramente non hanno visti i risultati, si renda necessario l’affidamento pre-adottivo dei bimbi; ossia una sorta di plastica sociale o di ingegneria familiare o di innesto bucolico che consenta di scansare la fatica di un buon governo del caso e nascondere la polvere sotto il tappeto; con l’aggravante di far leva sul fatto compiuto, cioè su di un affidamento provvisorio non garantito in quanto provvisorio, spesso disposto inaudita altera parte, che dopo anni nessun giudice avrà mai il coraggio di scalzare.

 

L’altra sera a “Piazza Pulita” le abnormità dette sono state tali da dare l’impressione che nessuno degli “strutturologi” potesse seriamente credere in quello che andavano dicendo. Parlavano davvero come se quello delle baby gang fosse uno strano problema apparso quel mattino a Napoli e non invece quasi un secolo fa e dappertutto; come se fosse anch’esso emergenziale e non invece ormai profondamente radicato nella maggior parte delle grandi aree suburbane; come se non esistesse ormai copiosa letteratura sull’analisi delle ragioni ossia della voragine a monte di dette scorribande delinquenziali: disinteresse e carenze familiari, scadimento dei valori primari, scomparti etnici, necessità di appartenenza, identità di gruppo con senso di onnipotenza ovvero “effetto branco” che deresponsabilizza, inadeguatezza del sistema scolastico etc etc etc.

 

A La7 un politico, un alto magistrato minorile e un noto neuropsichiatra una raffica di luoghi comuni e psicologismi

Vogliamo continuare a scherzare esorcizzando con la magica parolina “mafia” o vogliamo invece almeno tentare di essere seriamente propositivi?

 

Mah, pensando alla salute e soprattutto alla pressione arteriosa tentiamo di raffigurarci una performance televisiva diversa, quella che segue: din don, le campane suonano a festa, parte il servizio sui poveri ragazzi stupefatti, “non si dirà ancora che è colpa del disagio e della società” squilla una voce tra il pubblico subito zittita dal conduttore; a sentire gli sproloqui dei ganzini e poi il dialogo tra le due madri, il rammarico degli “ospiti” diventa sempre più palpabile. Con voce sommessa e pacata tutti si dichiarano d’accordo, vista la gravità dell’accoltellamento, sulla necessità di un processo rapido ed una punizione esemplare. Ma tutti si chiedono anche cosa fare per eliminare il disagio sociale dei ragazzi, che appare loro davvero evidente. Rassicura l’alto magistrato: qualsiasi confinamento diverso dalla detenzione inflitta con un giusto processo va bandito proprio perché qualsiasi ghettizzazione, sia pure in “struttura” specialistica di accoglienza, non può rieducare ma solo desocializzare e corrompere. E’ per questo che lavoreremo sul territorio – immaginiamo che promettano all’unisono – memori delle esperienze e delle raccomandazioni di Franco Basaglia, di Giampaolo Meucci, di Lina Laniado e tanti altri. Evoluzionismo non è una parolaccia – nel nostro sogno loro continuano a discettare – ci eravamo adattati a crescere e maturare al sicuro di una famiglia patriarcale che non c’è più, come in una palestra, ed oggi rimane solo una strada che possa colmare le insufficienze della famiglia nucleare e la solitudine dei rapporti virtuali: quella complementare delle istituzioni, prime tra tutte un sistema scolastico sempre più efficiente e pervasivo e, sul territorio, una presenza visibile delle forze dell’ordine. E poi – c’è già tutto nell’art. 25 della Legge Minorile… Regio Decreto n. 1404 del 20 luglio 1934 – prevenzione, cultura dell’empatia, centri di aggregazione, attenzione, controllo, sostegno, promesse, minacce, esempi di vita. E per la vergognosa aggressione di Arturo non solo questo in aggiunta ad un giusto processo con pene severissime, ma anche tanta mediazione penale affinché il fatto non resti psicologicamente irrisolto e dunque ancor più pregiudizievole per tutti. Vogliamo immaginare cosa potrebbe accadere se per un caso domani i due ragazzi, girato l’angolo, si ritrovassero faccia a faccia? Vogliamo ricordare – prima le abbiamo viste nel servizio andato in onda – quanto hanno penato le madri dei due ragazzi nel colloquiare cercando e non trovando un senso dell’accaduto? E’ per questo che ci attiveremo subito proponendo quella mediazione penale che, per i delitti contro la famiglia e la persona, già da anni ha conseguito ottimi risultati in consolidate esperienze europee; in quanto che, instaurando un rapporto di conoscenza e comunicazione tra vittima, carnefice ed i rispettivi loro contesti di vita, asseconda quel dialogo che, se bene impostato, finisce con lo stemperare qualsiasi forma di conflittualità, come neve al sole. Ecco, faremo tutto questo e promettiamo agli spettatori di non tentare altri esorcismi.

 

Nonostante sia solo un sogno mi ritrovo a bocca aperta sotto la suggestione di codeste fantasie, addirittura sorridente e quasi grato per quello che non è ma dovrebbe essere. Che dipenda da qualche sbalzo di pressione? Per ricompormi e rasserenarmi, in vista del controllo medico, vigliaccamente mi impongo di vagheggiare un ministero per la Solitudine stampo Gran Bretagna.

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