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Così la giustizia è diventata la grande assente della campagna elettorale

Annalisa Chirico

I partiti si concentrano su promesse mirabolanti e ripongono in un cassetto il dossier su cui tutti gli osservatori internazionali domandano un intervento incisivo per rendere il nostro paese più giusto e competitivo

Immersi nell’opera di divulgazione di mirabolanti promesse - redditi esistenziali, colf e pranoterapeuti per tutti, mogli per i vedovi e mariti per le vedove, sono un diritto fondamentale - i partiti ripongono in un cassetto il dossier su cui tutti gli osservatori internazionali domandano un intervento incisivo per rendere il nostro paese più giusto e competitivo.

 

La Giustizia è la grande assente di questa campagna elettorale in cui sogni e illusioni conquistano la scena a scapito di quelle “proposte realistiche e concrete”, sollecitate a più riprese dal capo dello stato Sergio Mattarella. Matteo Salvini schiera l’avvocato Giulia Bongiorno che, dopo aver accomunato il capo leghista ansioso di “azzerrare” la riforma Fornero al sempiterno leader democristiano Giulio Andreotti (“sono entrambi uomini concreti”), punta le fiches personali su legittima difesa e lotta agli immigrati.

 

Su consiglio dell’onnipresente Niccolò Ghedini, il Cav tuona contro l'“oppressione giudiziaria” senza soffermarsi sui dettagli, fin quando giusto ieri si lascia scappare un antico cruccio che equivarrebbe a un’iniezione di civiltà, con un sicuro effetto deflattivo sull’arretrato dei procedimenti pendenti: “Se un cittadino imputato viene dichiarato innocente - scandisce Berlusconi -, i pm non possono più richiamarlo in appello”, chissà se questa sarà la volta buona.

 

A sentire il M5s, il sistema italiano sarebbe afflitto da un’unica preminente urgenza, la corruzione, male atavico da abbattere spostando in avanti le lancette della prescrizione fino al suo completo azzeramento. Come se il processo ad aeternum rendesse giustizia alla vittima e non rappresentasse invece un enorme regalo per il colpevole.

 

Ci piacerebbe assistere a un confronto politico sulle ricette per rendere la giustizia civile e penale più rispondente alle esigenze di cittadini e imprese; vorremmo ascoltare proposte fattibili volte a superare le attuali discrepanze di produttività, a parità di norme e risorse, tra uffici giudiziari che distano pochi chilometri l’uno dall’altro; vorremmo sapere se l’introduzione di un court manager, sul modello anglosassone, un non-magistrato che organizza il lavoro dei magistrati, trova consenso oppure no, se la spinta verso una maggiore specializzazione togata, inaugurata dalle sezioni dedicate in materia di impresa, sarà assecondata nell’intento di dare impulso al principio di ragionevole prevedibilità delle decisioni giudiziarie. Vorremmo sapere se l’estensione delle misure di prevenzione verso soggetti ‘indiziati’ di corruzione e concussione, già contestata da una pletora di esimi giuristi, verrà modificata nei prossimi mesi, vorremmo sapere se le forze politiche in Parlamento intenderanno adottare provvedimenti appositi per “rafforzare il principio della presunzione di innocenza”, l’articolo 27 della Costituzione, come richiesto da una direttiva dell’Unione europea. Vorremmo sapere se qualcuno metterà mano alla normativa sul lobbying o proseguiremo nell’attuale ossimoro di un paese che non si è dotato di una regolamentazione organica sull’attività dei gruppi di pressione pur avendo introdotto nell’ordinamento una fattispecie fumosa denominata “traffico di influenze illecite”. E poi c’è l’obbligatorietà dell’azione penale nel paese dove il sessanta percento delle prescrizioni matura nella fase delle indagini preliminari: resta un tabù o se ne può discutere laicamente? E che dire delle porte girevoli tra politica e magistratura?

 

Matteo Renzi, che respinge la disponibilità di Antonio Di Pietro ad una candidatura con il simbolo Pd, è a favore del rientro nei ranghi della magistratura giudicante e inquirente, o intende limitare tale opzione? Vorremmo sapere se, nel paese dove il pluriomicida “Igor il russo” accetta di buon grado di essere estradato, si possa affrontare il tema della certezza della pena senza cedere alle sirene del populismo penale. A dispetto di certe false rappresentazioni, l’Italia rimane al vertice europeo per numero di carcerati in attesa di un giudizio definitivo: oltre 17mila persone, un terzo della popolazione detenuta, al di sopra di Francia, Germania e Gran Bretagna. È il paradosso nostrano: si varca la soglia del carcere da presunti innocenti e si esce da colpevoli. L’anticipazione della pena eretta a metodo ordinario, mentre l’esecuzione della condanna naviga in acque incerte. Una seria riflessione su automatismi e benefici penitenziari, al di fuori del perimetro populista, è possibile. L’insistenza su una pena effettivamente eseguita non è intransigenza punitiva, è l’essenza dello stato di diritto. Un nuovo garantismo che si batte anzitutto per l’affermazione di una cultura legalitaria potrebbe essere l’antidoto al giacobinismo galoppante. A condizione di aprire quel cassetto e cominciare a discuterne.