Foto tratta dal profilo Facebook di Steve Cummings

La libertà è una fuga. Steve Cummings saluta il ciclismo

Giovanni Battistuzzi

Per l'inglese questo sport era una lingua d'asfalto da esplorare con poca gente attorno, meglio se da solo. Le avventure alla Vuelta e al Tour e quei 500 chili di salmone pronti in frigo

La libertà non è star sopra un albero / Non è neanche il volo di un moscone / La libertà non è uno spazio libero / Libertà è partecipazione”. Partecipazione come unione di intenti, come qualcosa di superiore, fosse una ricerca di un destino comune, di una cambiamento radicale da cercare assieme. Partecipazione come lotta, come unità, come tutto quello che c'è da fare per evitare di rimpiangere ciò che si poteva fare e non si è fatto. Come una fuga, che, almeno nel ciclismo, è ciò che più si avvicina a tutto ciò: una rivolta dello status quo, la ribalta ottenuta a spese delle regole del gruppo. Se non uno spazio libero, quanto meno uno spazio d'improvvisazione. 

 

 

Probabilmente la libertà secondo Giorgio Gaber non ha superato la Manica, non ha conquistato Londra e tantomeno Clatterbridge, pochi chilometri sotto Liverpool. Però la libertà secondo Gaber non è poi diversa da quella che Steve Cummings da Clatterbridge, ha messo in strada negli ultimi quindici anni.

 

Perché il ciclismo secondo Steve Cummings non era altro che una ricerca della libertà di una fuga, di una lingua d'asfalto da esplorare con poca gente attorno, meglio se da solo. D'altra parte se sin da piccolo sei stato gettato in un velodromo per inseguire qualcuno dall'altra parte della pista, se sei stato abituato a menare il più forte possibile sui pedali per cercare di raggiungere un avversario che probabilmente mai raggiungerai, al massimo attorniato da altri tre compagni che come te hanno il medesimo scopo, viene facile iniziare a sognare altro, viene facile cominciare a immaginare qualcosa di diverso, un mondo nuovo, qualcosa che in molti chiamano libertà.

 

Non che sia costrizione il ciclismo su pista, non che sia una prigione l'inseguimento a squadre. Però per uno per cui la bici è “un modo come un altro per allargare gli orizzonti”, anzi “il miglior mezzo d'esplorazione, di contatto con tutto il bello che può offrire la Terra”, la Terra non poteva continuare a essere soltanto un andierievieni di ovali fatti di listelli di legno.

 

Nel 2004 Cummings iniziò a scoprire che c'era vita fuori dai velodromi. E quella vita gli piacque a tal punto da abbracciarla in modo assoluto. Dall'anno successivo il suo ciclismo iniziò a essere una scoperta continua e ininterrotta, una cavalcata nel vento, fosse esso quello della testa del gruppo o quello che precede l'avanzata compatta del plotone. Perché Steve Cummings aveva subito capito che era questo che doveva fare, aiutare i compagni più bravi per poter poi reclamare e ottenere i suoi spazi, quelli liberi e disperati della fuga.

 

Perché una cosa sapeva l'inglese: “Se resto con i migliori i migliori mi staccano. E mi staccano in salita, in discesa e pure in volata. Ma se mi avvantaggio prima...”. Prima degli altri, prima di tutti, prima ma molto prima del traguardo. Molte volte prima di chiunque altro. Perché se in certe tappe vallonate una regola c'era quella si poteva sintetizzare in: pronti via, scatta Cummings.

 

E ogni tanto pure arrivava prima degli altri.

 

Come il 31 agosto 2012 durante la tredicesima tappa della Vuelta a España. Pronti via, scatta Cummings, ma non va da nessuna parte, troppi a cercare l'avventura, il gruppo controlla. L'inglese ci riprova più volte, ma il plotone non lascia spazio. Tirerà il fiato solo dopo quaranta chilometri e davanti rimangono Meyer, Flecha, Clarke, Gerdemann, De Gendt e Viviani. E con loro: Steve Cummings. Che a tremila metri dal traguardo di Ferrol, in discesa, saluta tutti e si presenta solo sotto lo striscione d'arrivo. “Bella botta d'adrenalina vincere in un grande giro”, dirà a fine tappa.

 

 

Come il 18 luglio 2015 durante la quattordicesima tappa del Tour de France. Pronti via, scatta Cummings. Peccato che nessuno lo segue e l'inglese viene raggiunto. Ma quando in avanti si avventurano Barguil, Sagan, Caruso, Huzarski e Weening e il gruppo si distrae ecco che il britannico esce di nuovo. A seguirlo una ventina. Pedaleranno con lui compatti sino all'inizio della Côte de la Croix Neuve, lì dove Romain Bardet e Thibaut Pinot scattano, staccano tutti, si involano in una lotta tutta francese. Talmente francese da diventare marcamento. Marcamento dal quale sfugge Cummings a poco più di un chilometro dal traguardo. Non lo prenderà nessuno. “Non ero il più forte, sapevo che c'erano scalatori migliori. Sapevo che sarebbe stato davvero difficile vincere. Ho mantenuto la calma e appena ho visto che davanti bisticciavano c'ho provato. Mi è andato bene: che goduria vincere al Tour”, commentò.

 

 

Una goduria bissata l'anno dopo nel corso della settima tappa, quella che finiva a Lac de Payolle. Pronti via, scatta Cummings. E questa volta va bene. E va ancora meglio quando a ventisette chilometri dal termine stacca tutti, rimane solo e solo continua sino all'arrivo. “Una cosa pazzesca. L'ho fatta davvero? Ci sono veramente riuscito?”, chiederà a fine tappa.

 

 

Sedici successi in carriera e quasi tutti dopo una fuga. Sedici successi in carriera e oltre centoventimila chilometri pedalati in cinque continenti, perché “la bicicletta è scoperta ed è meglio poter scoprire il più possibile”.

 

Una scoperta continua, un collage di diapositive che abbracciano tutto il globo, una continua scoperta. Come quando tra fiordi e e laghi, su colline che si affacciavano sull'oceano sotto un cielo limpido che sembrava irreale “mi sono ritrovato sul podio con una maglia salmone addosso, un salmone gonfiabile in mano e 500 chili di salmone pronti da mettere in frigo. Chissà magari il prossimo anno...”. Ricordi recenti, estivi, in quell'estate nordica alla Arctic Race of Norway.

 

Un prossimo anno però non ci sarà. Steve Cummings ha annunciato il ritiro dal ciclismo. Le fughe le farà altrove, “magari in Europa, un bel viaggio a pedali lungo qualche settimana”.

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