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La Vigorelli–Ghisallo è un filo tra due monumenti

Stefano Garzelli racconta la corsa che unisce il velodromo di Milano al museo in cima al triangolo lariano. Un viaggio tra due santuari del ciclismo

Giovanni Battistuzzi

La bicicletta è unione. Di gambe e di testa, perché senza le prime non ci si muove ma senza la seconda non si dura; di spazio e di tempo, perché è movimento e quelle sono le sue dimensioni; di partenza e di arrivo, perché da qualche parte si sale in sella e da qualche parte tocca scendere; di panorami e odori, perché si è immersi in quello che sta attorno, senza barriere e senza filtri; soprattutto di storie. Perché muovendosi si attraversano luoghi, se ne viene a contatto; perché spesso si fatica e non c’è migliore modo per renderla sopportabile che estraniarsi da essa, focalizzarsi su qualcosa, immaginare.

 

Storie che sono racconti senza un finale, o meglio con tanti finali diversi e un sacco di protagonisti. Storie che sono un racconto secolare e senza fine nel quale ci si può immergere, perché il ciclismo non ha stadi chiusi, ma strade aperte, non ha reti, al massimo guardrail, permette a chiunque di pedalare i palcoscenici di imprese e crisi, di cavalcate e derive, di vittorie e sconfitte. A cavalcioni di una bicicletta si può anche pedalare nel già visto, ma è un già visto che ogni volta è capace di sorprenderti. Anche quando si è corso a lungo, si è stati corridori e campioni. Anche quando si parte dal velodromo Vigorelli per arrivare al Ghisallo. Soprattutto quando dal Vigorelli si parte e al Ghisallo si arriva. Perché la Vigorelli-Ghisallo – si è corsa domenica la quinta edizione ed è stata organizzata da Comitato Velodromo VigorelliMuseo del Ciclismo Ghisallo e Upcycle – Milano Bike Café, con il supporto di Titici Bike, Uyn, Target Real Estate, e la collaborazione di Faema, con il patrocinio di Comune di Milano, Touring Club Italiano e UISP Unione Italiana Sport per Tutti – non è solo una pedalata divenuta classica di fine stagione, è soprattutto “un filo teso tra due monumenti, un sentiero tra due santuari del ciclismo”, dice al Foglio Stefano Garzelli, professionista tra il 1997 e 2013, un Giro d’Italia in bacheca (oltre a otto tappe), una Liegi-Bastogne-Liegi sfiorata (secondo dietro al compagno di squadra Paolo Bettini), e ora voce narrante del Giro per la Rai (oltre che brand ambassador di Uyn (marchio di abbigliamento sportivo high-tech) e Titici. “È stato qualcosa di nuovo e di sorprendente. La possibilità di pedalare di nuovo con alcuni dei compagni della Mapei, soprattutto un’immersione nella storia dello sport, una congiunzione tra due santuari che sono riusciti ancora a stupirmi”. 

  

Dal Vigorelli al Ghisallo, come un viaggio tra due mondi e due luoghi che in realtà sono un mondo e un luogo solo.

 

Vigorelli come “un ritorno al passato, alla gioventù, a quando sentivo parlare di quel luogo. Ed era per tutti un simulacro e a me quel nome mi sembrava mitico. Era uno dei simboli del ciclismo mondiale e così quando ci sono entrato per la prima volta è stato qualcosa di incredibile. Sei lì e annusi l’odore della storia, il profumo delle listarelle, delle fatiche. Quasi senti ancora le grida delle persone che incitavano i campioni e quasi vedi ancora quegli spalti stracolmi di gente, le ore di coda per entrare, e tutti quei corridori che giravano su quei 397,7 metri. E la stessa emozione l’ho provata domenica quando mi sono messo sotto la parabolica e ho guardato in cima, quando mi sono reso conto ancora una volta quanto è ripida quella curva. Mi sentivo il ragazzo di allora, come se non fossero passati gli anni”.

 

Vigorelli come resistenza “perché il velodromo c’è ancora nonostante tutte le vicissitudini che ci sono state in questi anni. E allora grazie è chi è riuscito a tenerlo in piedi perché non tutti sono in grado di poter e voler impegnarsi nella salvaguardia di un simbolo di questo sport e dello sport”. Ed è un impegno di ciclisti urbani e non, cittadini e gente di buona volontà, per brevità Comitato Velodromo Vigorelli, che ha fatto rinascere l’anello, prima tenendolo in vita, poi sistemandolo, infine riportando i corridori a pedalarci.

 

Ghisallo “come fosse un monte sacro, un posto unico al mondo”. Una salita che è una preghiera, un santuario che bisogna guadagnarselo, indipendentemente dal lato che si sceglie da affrontare che sia il lato nobile, quello da Bellagio, il più percorso quello che ha fatto la storia, quello che ha visto nascere le fughe di Binda, di Bartali, di Coppi; o quello primigenio, quello di Asso, quello che Costante Girardengo ha scoperto per primo nel 1919 sotto una pioggia sottile e pungente. In cima il campanile che anticipa la visione della chiesetta, il suo porticato, la storia che contiene. La chiesetta della Madonna del Ghisallo è lì dal diciassettesimo secolo anche se era lì da prima: una cappella votiva buona per i viandanti per chiedere protezione. È santuario dal 1949, patrona dei ciclisti. È tappa irrinunciabile per chiunque vada in bicicletta. “Il ciclismo ha trasformato il Ghisallo in un appuntamento, un punto di riferimento. È il Lombardia, ma è il Lombardia tutto l’anno non solo il giorno della Classica delle foglie morte. E lo è per tutti, non solo per i professionisti”, dice Garzelli.

 

Ghisallo come museo "come fosse un viaggio nella storia della bici e del ciclismo, un vortice di ruote e manubri e maglie che fanno rivivere oltre un secolo di pedalate e imprese".

 

Ghisallo come un ritorno al futuro. “Esattamente trent’anni fa lì ho vinto la Como-Ghisallo. Più che una corsa era una giornata intera dedicata a questo luogo, a questa salita. Cinque corse, cinque categorie, una processione di ragazzini in bicicletta che si arrampicavano verso la cima, verso quel campanile e quella chiesetta col portico davanti”.