Foto di @white73widow via Unsplash

Far ritornare Milano capitale della bicicletta (partendo dalla Milano Bike City)

Giovanni Battistuzzi

In questi anni la forza della città è stata quella di partire dai grandi eventi per mettere a sistema i cambiamenti. Buoni motivi per credere che succederà anche con la bici. Parla Marco Mazzei

C'è stato un momento, oltre un secolo fa, nel quale Milano era la bicicletta. Erano gli anni del ciclodromo di Parco Sempione, delle gare sul “circuito” dei Bastioni, delle grandi fabbriche – dalla Bianchi alla Legnano passando per altre decine di marchi più piccoli, ma non minori – che facevano pedalare la città e l'Italia, delle due ruote a pedali un po' segno di eversione, un po' desiderio di tutti. Un'altra epoca, il colpo di coda dell'Ottocento.

 

C'è stato un momento, oltre mezzo secolo fa, nel quale Milano era la capitale delle biciclette. Erano gli anni del Vigorelli sempre pieno, delle attese per l'arrivo dei Giri, quello d'Italia e quello di Lombardia, soprattutto del milione di biciclette che giravano tra centro e periferia sui tre milioni che circolavano nel nostro paese (le auto erano 149mila in tutto il suolo italiano). Anche questa un'altra epoca, il secondo Dopoguerra.

 

C'è stato tutto questo, poi le cose sono cambiate. Le strade del capoluogo lombardo hanno dimenticato le biciclette per accogliere le automobili. Erano quelli gli anni della realizzazione pratica della massima teorica di Le Corbusier, quella della strada come “machine à circuler”, insomma liberata da qualsiasi presenza non produttiva che disturbava efficenza e velocità. Quelli brillantemente presi in giro da diversi film, immortalati su pellicola in modo ironico da Pipolo e Castellano nel loro Ragazzo di campagna.

 

 

Anche quella Milano però sta appassendo, lasciando spazio a una nuova concezione della città, molto più europea e meno autocentrica, nonostante ci siano ancora resistenze a un'evoluzione della mobilità che ha preso piede in gran parte d'Europa. L'Italia è ancora indietro, insegue allo stesso modo di un corridore che ha forato e vede il gruppo da lontano.

 

Milano però guarda al futuro, non può fare altrimenti. S'è calata addosso questa sua dimensione europea e sa che non può rimanere indietro. E così nei giorni della Milano Bike City (dal 14 al 22 settembre), la settimana di eventi dedicati alla bicicletta, al ciclismo e alla mobilità sostenibile, promossa dall’Assessorato al Turismo, Sport e Qualità della vita del Comune di Milano in collaborazione con l’Assessorato alla Mobilità e Ambiente e organizzata da Ciclica, Milano Bicycle Coalition e Kindi Associazione, il capoluogo meneghino prova a toccare con mano ciò che sarà, ma ancora non è. D'altra parte la forza della città è quella di partire dai grandi eventi per mettere a sistema i cambiamenti, la modifica di abitudine e usi metropolitani. “La Milano Bike City è utile per cambiare una città, ma non basta. Perché gli eventi sono utili quando sono inseriti in un contesto più ampio, quello di una città che vuole cambiare indirizzo e direzione”, dice al Foglio Marco Mazzei, uno degli organizzatori della Milano Bike City.

 



 

Un cambiamento che è già iniziato. Con il rafforzamento di un sistema di trasporto intermodale (in sintesi la possibilità di portare la bici a bordo di treni, metropolitane e tram). Con l'aumento di piste e corsie ciclabili nelle zone pre-periferiche e periferiche e con la disincentivazione dell'utilizzo dell'auto privata nel centro (Ecopass e aumento delle zone pedonali e semi-pedonali). Anche se tutto ciò è stato fatto spesso in modo confuso, a volte arraffato, quasi sempre senza un piano preciso di ridisegno della città.

 

“Le battaglie da portare avanti per una Milano a misura di ciclisti sono diverse ancora. E questo sebbene le cose sono migliorate negli ultimi anni. L'aumento del turismo, degli studenti e di persone che hanno esigenze diverse dal muoversi con un automobile privata”, continua Mazzei. “Tutto ciò ha modificato e continua a modificare la città portando nelle strade un numero maggiore di biciclette, di monopattini, eccetera. Ha inoltre favorito un cambiamento delle abitudini di movimento e questo ha permesso il proliferare del car sharing, del bike sharing e di altre forme di mezzi di trasporto condiviso”. Se questa è la nuova realtà esistono però “degli interventi che ancora devono essere messi a regime e questi riguardano la sicurezza. Questa va intesa sia come l'andare in giro in bicicletta senza rischiare di farsi male o di avere la sensazione di farsi male, sia come la necessità di poter lasciare la bici attaccata a un palo o a un porta bici e ritrovarla lì dove la si è lasciata. Queste sono le due principali barriere che condizionano le scelte delle persone”. Per superare queste due barriere sono molti gli interventi che possono essere fatti, anche a un costo estremamente basso per la municipalità, ma tutti devono partire da un punto cardine: “Moderare il traffico, soprattutto abbassando i limiti di velocità delle automobili”. Una moderazione che dovrebbe passare anche attraverso “la realizzazioni di Zone 30 reali, nelle quali le macchine sono costrette ad andare piano grazie all'introduzione di dissuasori di velocità infrastrutturali”. E soprattutto attraverso un cambio culturale che in diverse realtà europee (il nord Europa in primis, ma negli ultimi anni anche in Spagna, Portogallo, ndr) “che superi l'autocentrismo delle nostre città, grazie anche a una serie di campagne di informazione, prevenzione, comunicazione che facciano percepire il pericolo esistente nelle strade, in modo da far capire che le strade non sono esclusiva soltanto delle automobili”.

 

Per rendere tutto ciò più semplice, per contribuire a superare le piccole problematiche esistenti, potrebbe essere utile una figura capace di analizzare il traffico e adattarlo alle diverse necessità delle persone, un mobility-manager, figura che esiste in molte grandi città europee. “Una figura del genere potrebbe riuscire a risolvere quei micro problemi che sono apparentemente insignificanti, ma che quando li si mettono assieme disincentivano l'utilizzo di altri mezzi che non siano l'auto”.

 

L'utilità di un evento come Milano Bike City è quella di evidenziare l'esistenza di un altro modo di intendere la città, di avvicinare alla bicicletta anche chi ha sempre visto la bicicletta come un oggetto piacevole, interessante, ma lontano dall'utilizzo quotidiano come mezzo di trasporto urbano. “L'utilità è soprattutto quella di abbattere alcune barriere che esistono tra realtà prossime, ma che hanno ancora difficoltà a intersecarsi. La più evidente è quella tra chi usa la bici per fare sport, ma non la usano in ambito urbano. Molti dei ciclisti domenicali infatti non concepiscono neppure la possibilità di pedalare ogni giorno in città: la percepiscono come un mondo a parte, lontano dal loro. Un evento del genere ha la possibilità di lanciare dei dubbi, far porre delle domande: 'Davvero la bicicletta la posso utilizzare solo la domenica?'”. Un'altra utilità di questo genere di eventi è quella di avvicinare al mondo della bicicletta chi non si è mai avvicinato: “La bici che inizialmente è uno sfondo di un tal evento, diventa un'esca capace di attrarre chi magari non crede di poter essere attratto, ma che in realtà scopre la bellezza dell'andare in bicicletta”.

 

La strada da percorrere per riportare Milano a essere di nuovo la capitale della bicicletta è ancora lunga, ma quanto meno la si è già iniziata a percorrere. Lo si è visto negli anni scorsi con il Vigorelli che, grazie al Comitato velodromo Vigorelli, è tornato a essere un punto vivo della città, a richiamare appassionati e semplici curiosi, a rendere l'anello ancora una volta un simbolo della bicicletta milanese.