L'Amstel Gold Race di Van der Poel è un tributo all'ostinazione

Con una volata infinita l'olandese conquista la classica casalinga. Cosa c'entrano Van Gogh, la natura, Jan Raas con il ciclismo? Chiedetelo a Fuglsang e Alaphilippe

Giovanni Battistuzzi

Scriveva Vincent Van Gogh al fratello Theo che la natura "non è altro che apparenza da interpretare", che dunque tutto in realtà è un'idea, una visione delle cose. Per questo credeva che il successo o il fallimento di un'idea, di una forma d'espressione, "dipendeva dagli interessi che riusciva ad attrarre". Molte volte funziona così anche nel ciclismo: la buona riuscita di una corsa non è altro che un fatto d'interpretazione, e quella di un'azione, dipende molte volte dalla compagnia che si trova, specialmente quando si cerca il colpo grosso a oltre trenta chilometri dal traguardo, soprattutto quando non si è Eddy Merckx.

 

Jan Raas, campione del ciclismo olandese tra gli anni Settanta e Ottanta, sintetizzò tutto questo in un ben più semplice "in due si va meglio che da soli e meglio che in quattro o in tanti". Per Raas, non c'erano discussioni: "In tre si litiga, in quattro ci si allea, in due si marcia e poi ci si gioca tutto allo sprint". Ma le teorie prestano sempre il fianco alla contestazione e alla smentita. E oggi all'Amstel Gold Race la smentita è arrivata nelle ultime centinaia di metri. La contestazione era partita prima ed è finita dopo il superamento della linea d'arrivo. Il traguardo che hanno visto per primi Julian Alaphilippe e Jakob Fuglsang, che pensava di conquistare Michał Kwiatkowski dopo un inseguimento intelligente e ostinato, e che invece ha oltrepassato per primo Mathieu Van der Poel con un colpo di scena che è un po' un colpo di classe, molto idea, moltissimo forma d'espressione. La sua. Quella di spalle che si muovono disarmoniche, di gambe che mulinano veloci e tenaci, di una sagoma che è apparizione curva, che è senso estetico di superiorità.

 

Gunny voleva un'affermazione per coronare uno stato di forma che lui stesso aveva indicato come "ottimale". Voleva però il colpo a effetto, il numero di primavera. Un arrivo in solitaria, ossia il certificato di maturità ciclistica. E così aveva iniziato a a tormentare gli avversari con un attacco a 43 chilometri dall'arrivo. Uno scatto potente, raffinato, testardo. Se non inutile però sicuramente dannoso. Perché davanti aveva trovato Gorka Izagirre, non certo il miglior compagno d'avventura, il vento in faccia e un branco di cani affamati alle spalle. Per di più una volta inghiottito di nuovo dal gruppo ecco che era partito Julian Alaphilippe, lo aveva raggiunto Jakob Fuglsang, lui sì compagno di fuga adeguato, Matteo Trentin, Michael Woods e Michał Kwiatkowski si erano portati alle loro spalle e tutto sembrava perduto.

 

Mathieu Van der Poel ha provato a organizzare la controffensiva, ha provato a inseguire da solo, ha rischiato di staccarsi, si è scoperto attendista. E quando ha visto da lontano il francese e il danese farsi i dispetti, il polacco tentare il colpo di teatro, non riuscirci e adeguarsi ai dispetti altrui, ecco che se n'è fregato di Van Gogh, di Raas e di tutto quello che la natura e l'arte dice o pensa di dire. Gunny si è alzato sui pedali, ha pensato solo a correre più veloce degli altri, che è poi l'unico metodo infallibile per rendere reale l'improbabile. Uno sprint di quasi cinquecento metri, uno slalom tra speranza e sogni, tra illusioni e incredulità. La sua. Quella che gli si è dipinta in volto nel momento del passaggio sulla linea d'arrivo. Quella che ha trovato attorno a lui una volta superato il traguardo e poi è finito, sfinito, sull'asfalto. Quella che si mescola alla gioia di realizzare ciò che non è semplice realizzare. E per farlo non basta solo la forza o la forma, ci vuole soprattutto un'ostinazione enorme. Quella che in fondo in fondo non è altro che il tratto saliente del ciclismo di Mathieu Van der Poel.