Niccolò Machiavelli

Machiavelli e Canetti, gli occhi fissi sul potere

Davide D'Alessandro

Dopo la lettura dell’uno e dell’altro non si è più quelli di prima. Non importa se per uno bisogna saper entrare nel male, necessitato, e per l’altro il potere è il male assoluto. Distano centinaia di anni, ma diventano i compagni di viaggio che c’invitano, a distanza di secoli, a pensare gli stessi pensieri

           

Attilio Scuderi, docente di Letterature comparate all’Università di Catania, aveva catturato la mia attenzione nel 2016 con L’arcipelago del vivente. Umanesimo e diversità in Elias Canetti. Ora, sempre con Donzelli, è tornato in libreria con Il libertino in fuga. Machiavelli e la genealogia di un modello culturale. Che Canetti e Machiavelli siano stati i due ultimi autori di riferimento di Scuderi non mi sorprende affatto, come non sorprenderebbe lo stesso Canetti, il quale a distanza di qualche anno cambiò sensibilmente giudizio sul Segretario fiorentino. Anche i grandi cambiano parere. Anzi, proprio perché sanno mutare la propria opinione, risultano grandi.

In La provincia dell’uomo, in una nota del 1949 dedicata a Hobbes, Canetti scrive: «Machiavelli, che tanto viene esaltato, è appena una metà, la metà classica di Hobbes. […] Di che cosa siano le religioni Machiavelli, che bazzicava con cardinali, non ha capito assolutamente nulla. Non ha avuto modo di trarre profitto dall’esperienza delle guerre e dei movimenti religiosi di massa in quei cento anni abbondanti tra lui e Hobbes. Dopo Hobbes, occuparsi di Machiavelli ha soltanto un interesse storico» e aggiunge: «Dopo aver lavorato seriamente sul Leviatano, so che includerò questo libro nella mia “Bibbia ideale”, la mia raccolta dei libri più importanti – e con questo intendo specialmente i libri dei nemici. Sono quei libri con i quali ci si affila, non quelli che ci fiaccano, perché sono già stati succhiati e prosciugati da molto tempo. Di questa “Bibbia” non faranno parte, ne sono certo, né la Politica di Aristotele né il Principe di Machiavelli né il Contratto sociale di Rousseau».

In La rapidità dello spirito, in una nota datata 1954-1956, Canetti scrive: «Oggi mi sono immerso nella lettura di Machiavelli. Per la prima volta mi avvince davvero. Lo leggo freddamente e senza troppo accanirmi. Mi colpisce il fatto che abbia indagato sul potere esattamente come io ho indagato sulle masse. Guarda in faccia il potere senza alcun pregiudizio; i suoi pensieri scaturiscono dalle sue personali esperienze con i potenti e dalle sue letture. Altrettanto si può dire, mutatis mutandis, di me» e aggiunge: «Con Machiavelli avrei un rapporto più puro se non m’interessassi anch’io del potere; qui le mie strade s’incrociano con le sue in un modo più intimo e più complicato. Per me il potere è e rimane sempre il male assoluto, posso considerarlo e occuparmene soltanto in questa luce. A volte la mia ostilità si assopisce, come quando leggo Machiavelli; ma è un sopore leggero dal quale mi risveglio volentieri».

Scuderi ha considerato prima l’uno, poi l’altro ma l’uno e l’altro sono accomunati da un percorso di pensiero che tocca l’umano, il potere, la missione di incidere e lasciare un segno profondo nel costato del lettore. Dopo la lettura dell’uno e dell’altro non si è più quelli di prima, la metamorfosi prorompe come d’incanto. Non importa se le visioni del mondo sono diverse, se per uno il potere è il male assoluto e per l’altro bisogna saper entrare nel male, se necessitato. Importa impegnare la propria mente sulle questioni ritenute fondamentali e scrivere la propria storia sui temi che l’hanno intessuta. Allora Canetti e Machiavelli non sono due libri che distano centinaia di anni, ma diventano i compagni di viaggio che c’invitano, a distanza di secoli, a pensare gli stessi pensieri.

Argomenta Scuderi: «L’esperienza della narrazione di storie, della lettura e della scrittura, capaci di generare un insostituibile impatto intellettuale ed emotivo col mondo, sono dunque e sempre in Canetti una vera e propria, profonda e originaria, scuola di metamorfosi». E quando Machiavelli narra del presente che scaturisce dall’antico, quando dalle antiche corti cerca di suggere il messaggio per orientare il corso del suo tempo, non propugna una metamorfosi, una trasformazione? Se Canetti, come spiega Scuderi, «pratica energicamente l’annullamento della logica identitaria come base operativa del suo umanesimo antropologico», Machiavelli opera per un’Italia che sia una, armata e spretata, perché una non lo era, armata neppure e spretata neanche a sognarlo. Due mondi lontani, due contesti storici diversissimi, ma identica la volontà ferrea di scavare nel torbido, nel nucleo essenziale della natura umana. Canetti riconosce che Tucidide fu per Hobbes ciò che per Machiavelli fu Livio. Noi oggi siamo in grado di comprendere ciò che Machiavelli fu per Canetti, dopo una iniziale diffidenza. L’unico in grado di assopire la sua ostilità verso il potere. Un sopore leggero, d’accordo, dal quale l’autore di Massa e potere si risveglia volentieri, perché non intende mollare di una virgola nel suo combattimento contro il male assoluto, contro la morte, ma comunque sopore come possibilità di farlo cedere, di fargli piegare il ginocchio, poiché il Segretario fiorentino ha la forza per produrre una metamorfosi. È una metamorfosi che Canetti rifiuta, ma ne è inquietato.

E noi abbiamo bisogno di pensatori che inquietino, di menti libere, delle disavventure della libertà e dei libertini, di maestri che non durino una breve stagione. Le pagine che Scuderi dedica a Machiavelli ed Erasmo, alla libertà e ai libertini in Shakespeare e Montaigne sono di notevole fattura e “gli spettri di Machiavelli” regalano un finale di rara intensità. Scrive l’autore: «L’esperienza umana e intellettuale di Niccolò Machiavelli è segnata dagli sforzi e dai drammi, dai compromessi e dalle tensioni del bisogno insopprimibile di avere la “mente libera”. Non è un’esagerazione dire che proprio questo bisogno lo condusse all’analisi del sistema politico e sociale italiano ed europeo del suo tempo, lo predispose alla comprensione dei fenomeni individuali e collettivi di relazione e sottomissione col potere e lo rese da subito – immediatamente dopo la sua morte – un punto di riferimento centrale, tanto conflittuale quanto nevralgico, del dibattito culturale rinascimentale. Amato e odiato, letto e disletto, interpretato e frainteso, gelosamente nascosto e annotato e insieme pubblicamente additato all’Indice e bruciato nei roghi dell’Inquisizione, Machiavelli è stato forse lo scrittore e il pensatore più capace di suscitare contemporaneamente, nel tempo e nello spazio storici come nella vicenda delle sue letture, sentimenti e pensieri, adesioni e rifiuti, opposti e contrastanti».

Parole mirabili. Toglierei soltanto il “forse”. Machiavelli è stato lo scrittore e il pensatore più capace di suscitare contemporaneamente sentimenti e pensieri, adesioni e rifiuti, opposti e contrastanti. Anche in Canetti. Per questo Machiavelli e Canetti sono e resteranno per sempre tra i nostri autori di riferimento. Insieme e distanti. Insieme perché distanti. A Canetti, in vita, è toccato almeno il Nobel. Al Segretario fiorentino, ci fosse stato il Nobel, non l’avrebbero dato. Ma, ha scritto Giuseppe Prezzolini, «la leggenda è il premio che la storia concede ai grandi uomini per consolarli delle loro disgrazie in vita. Essi talora compiono con la loro leggenda quello che non poterono, in vita, raggiungere col loro ingegno. La leggenda s’impadronì del Machiavelli al letto di morte; ed essa lo porta ancora in cima alla sua ondata di gloria e d’infamia, e ce lo mostra in modo ch’è difficile guardarlo senza fremere d’ammirazione o d’orrore». L’ammirazione e l’orrore che provò Canetti. Io, per quanto possa contare, provo soltanto ammirazione.