Lo strano Machiavelli che si fece devoto papalino per i suoi amori: Italia e politica

Adriano Sofri

L’esortazione alla penitenza e il suggestivo libro di Lettieri

C’è uno strano Machiavelli, che vicino alla fine della vita scrive una devota “Esortazione alla penitenza” (il titolo non è dell’autore) da dire in una pia confraternita. La si è abbastanza trascurata, salvo alcuni studiosi che hanno voluto riconoscervi la prova di un Machiavelli intimamente cristiano e cattolico e insomma credente. All’opposto, comprensibilmente scandalizzati da un simile lavaggio, altri se la sono cavata considerando il sermone come una parodia o, disse Croce, “una scherzosa cicalata a una confraternita probabilmente di buontemponi”. Ma non c’è nel testo (che è arrivato in manoscritto, con la grafia del Machiavelli anziano) niente che giustifichi l’interpretazione scherzosa. Gaetano Lettieri, storico del cristianesimo (è nato nel 1961) e docente alla Sapienza romana, si è dedicato appassionatamente alla questione, e ora l’ha portata alla Radio 3 nello spazio di “Uomini e profeti”. Un Machiavelli quaresimale, poco prima che si inaugurasse la sua demonizzazione, è tema tale da interessare anche i non specialisti. Si può intanto scartare l’ipotesi che il suo amico Guicciardini aveva evocato, lui sì per scherzo: che una conversione di Niccolò potesse avvenire solo col rimbambimento. Al contrario, il Machiavelli dell’anno santo 1525 sente finalmente di nuovo di poter svolgere l’azione politica per cui è nato, a Roma, dove è venuto a presentare al Papa Clemente VII, Giulio dei Medici, le Istorie fiorentine completate. Qui gli vengono affidati compiti rilevanti nella preparazione della guerra contro Carlo V, che finirà nella catastrofe del Sacco di Roma, nel 1527. Lettieri mette insieme notizie già segnalate e acquisizioni nuove per arrivare a una conclusione: il Machiavelli “cortigiano del Papa” è impegnato sul doppio fronte della difesa dall’assalto della riforma luterana e dell’impero. Si credeva che l’“Esortazione” fosse stata destinata a un ambiente fiorentino, ma l’attività delle confraternite a Firenze è sospesa dai Medici fin dal 1513: dunque la destinazione è romana, e precisamente, secondo Lettieri, l’Arciconfraternita della Carità di San Girolamo, la più vicina alla curia. Nel testo, ricco di motivi scritturali e teologici, si riconosce il calco da Erasmo, “De immensa Dei misericordia concio”, 1524, il testo tanto atteso – e fomentato e finanziato – da Roma, in cui finalmente Erasmo si schiera apertamente contro Lutero. (E’ tradotto ora da Pasquale Terracciano per le edizioni della Normale, “La misericordia di Dio”). Mai nominati, né Lutero né Erasmo, nella Esortazione. Che era stata anche letta in passato secondo un’inclinazione agostiniana, savonaroliana e quasi filoluterana, a scapito del pentimento e della giustificazione per le opere e la carità che Lettieri persuasivamente rivendica. Se non sbaglio, Lettieri, che è cattolico, non tiene tanto, per fortuna, a riverberare sull’intero Machiavelli un fondo credente e timorato. Piuttosto, l’occasionale dedizione teologica di Machiavelli è al servizio di un suo “spasmodico impegno politico e militare pontificio”. Lettieri si stupisce di una disattenzione al Machiavelli legato alla curia di Roma, dov’è intrapresa la prima edizione a stampa delle sue opere, cui segue quella fiorentina col privilegio papale. La benevolenza di Clemente VII e la “fraterna” fiducia di Jacopo Sadoleto, autore dei “brevi” papali, e di altre eminenti personalità come il Giberti vescovo di Verona, fanno di Machiavelli “l’uomo chiave della guerra papale contro Carlo V e l’autore di pasquinate encomiastiche di Clemente VII e propagandistiche dell’imminente ‘vittoria’ antimperiale”. Nel “breve” sulla formazione di “armi proprie” pontificie in Romagna, il punto centrale del suo attivismo politico-militare, Machiavelli viene nominato come “dilectus filius”. Lettieri enuncia vigorosamente il suo programma: “Dimostrerò come proprio nel ‘cuore di tenebra’ della curia/corte pontificia l’ultimo Machiavelli abbia voluto e sia riuscito a ‘intrare’, dopo un più che decennale ‘corteggiamento’ dei due Papi medicei, Leone X e Clemente VII. E questo per rimanere ostinatamente fedele alla sua passione dominante: pensare e operare altissima politica, questa volta, però, agendo finalmente a strettissimo contatto con il Papa”. Roma, aveva scritto Carlo Dionisotti, restava “l’unica potenza italiana capace di una iniziativa ad alto livello, sul piano dell’Europa”.

 

Al suo proposito, all’incontenibile vocazione alla politica effettuale Machiavelli, “spregiudicatissimo”, cede qualunque immaginata categoria ideologica, “fosse anche quella di repubblicano o fautore del principato, ateo o credente”. Ho un dubbio che si possa mettere sullo stesso piano la convinzione atea e apertamente anticristiana con il suo opposto, la fede del credente: ci sono cose che Machiavelli crede e cose cui non crede, anche quando sia disposto a subordinarle tutte alle cose dello stato. Paradossalmente, proprio per questo il testo dell’Esortazione conserva un resto inspiegato, o più spiegabile nell’ipotesi di esser stato composto su commissione e per esser detto da altri. Nessuno come il segretario fiorentino, il consigliere del principe e della timorata Lucrezia, era capace di dire le cose d’altri. E farle, all’occasione.

 

Alla rivalutazione del Machiavelli romano Lettieri affianca quella di Clemente VII, il bastardo di Giuliano de’ Medici “trascuratissimo” dalla storiografia: “princeps romano-fiorentino, nuovo e più raffinato Cesare Borgia, vescovo e vero signore di Firenze dopo la morte del Duca d’Urbino, cardinale conquistatore di Milano il 19 novembre 1521 quale luogotenente dell’esercito pontificio, soprattutto capace (a differenza del figlio di Alessandro VI) di innalzarsi – da bastardo di Giuliano de’ Medici quale era – sino al papato”. In una conclusione a sua volta impetuosa, Lettieri fa di Clemente VII il vero titolare dell’appello profetico del Principe: “Un Papa non era canonicamente un uomo della provvidenza, eletto e ordinato da Dio sopra ogni altro? Un uomo quale Giulio de’ Medici, ‘inclinato dalla volontà sua alla professione dell’armi, ma tirato da’ fati alla vita sacerdotale’, poteva non fare proprio, dall’alto del suo carisma assoluto di capo della cristianità (per di più assediata dalla Riforma), l’appello profetico del Principe? Clemente VII, lettore attento delle opere machiavelliane, decide di divenire il redentore d’Italia: si fa promotore della lega di Cognac ed entra in guerra contro l’imperatore, in un’identificazione singolare e ambigua tra supremo capo teologico (che, contro Lutero, è intento a riaffermare il suo primato assoluto sulla cristianità) e messianico capo politico italiano”.

 

Il 6 maggio 1527 i lanzichenecchi entrarono in Roma e la misero a sacco. Il Papa si rinchiuse in Castel Sant’Angelo e, dicono, incanutì di colpo. Il 21 giugno a Firenze, che aveva cacciato i Medici e restaurato la repubblica, Machiavelli, accantonato, morì.

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