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La realtà percepita e Salvini

Adriano Sofri

La falsificazione dei fatti (esempio: gli immigrati ci portano la guerra) e il suo fine politico. Note a margine, pertinenti, al libro di Carlo Ginzburg su Machiavelli

Carlo Ginzburg ha pubblicato un libro intitolato “Nondimanco”, sottotitolo “Machiavelli, Pascal” (Adelphi, pp. 242, 18 euro). Qui se ne è scritto ripetutamente, da ultimo con un entusiasmo meravigliato e avventuroso da Giuliano Ferrara. Posso lasciare da parte la peripezia sulle fonti e i rimandi che sono la sostanza del libro e danno un esempio abbagliante del piacere della ricerca. Prenderò solo la scoperta che le dà avvio: l’importanza del “nondimanco” in Machiavelli. Il quale enuncia la norma – le cose come dovrebbero essere – per opporle subito l’eccezione – le cose come sono. A distinguere “la immaginazione della cosa” dalla “verità effettuale della cosa”, la regola dall’eccezione, sta quel “nondimanco”.

  

“Ancora che lo usare la fraude in ogni azione sia detestabile, nondimanco nel maneggiare la guerra è cosa laudabile e gloriosa” (Discorsi). “Era tenuto Cesare Borgia crudele, nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace e in fede”. “Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco si vede per esperienza ne’ nostri tempi quelli principi avere fatto grandi cose, che della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con la astuzia aggirare e’ cervelli delli òmini, e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà” (Principe). Vien da dire, in soldoni, che il nondimanco separa il vizio dall’omaggio reso alla virtù. Ovvero che la politica sia l’arte di maneggiare le deroghe che la realtà impone alla norma. (Che la realtà stessa sia una deroga). Le deroghe, che Machiavelli illustra sulla scorta dell’esperienza della storia, soprattutto degli antichi, e dei proprii tempi e propria, vengono catalogate e selezionate a loro volta da quel magnifico esercizio dell’intelligenza, logico o sofistico o morale o moralistico che si chiamò casistica, e che trionfò nel servizio reso dai gesuiti al potere (proprio), alla ragion di Stato e all’ipocrisia del singolo peccatore. Quanto a Machiavelli, si può dire che la sua enorme “fortuna” si sia svolta in due direzioni: quella del “machiavellismo”, che lo fa suggeritore diabolico e comunque immorale di frode e ferocia, e quella che vuole liberarlo da una simile taccia. Al centro della diatriba sta il motto per cui “il fine giustifica i mezzi” (mai enunciato così da Machiavelli, che peraltro gli andò a volte vicinissimo) complicato dal doppio senso di ambedue i termini, perché il fine non è solo né tanto il proposito, l’obiettivo, ma l’effetto, il risultato. E a loro volta i mezzi non sono solo gli strumenti per conseguirlo, ma ciò che sta fra il proposito e il risultato, e che li rende coerenti. Detto, così sommariamente, questo, voglio segnalare l’analogia fra la regola e la deroga nella casistica politica di Machiavelli (ma anche privata, come nella Mandragola i consigli infami di fra Timoteo a Lucrezia, riluttante a tradire il vecchio marito, che mostrano la strategia amorosa affine se non ammaestratrice di quella politica) e la distinzione, che infierisce ai nostri giorni, fra i fatti e la loro “percezione”.

  

“Percezione” e “appercezione” (“percezione della percezione”) sono termini che hanno un peso forte e intricato nella storia della filosofia, ma noi abbiamo a che fare con la parola nel suo uso corrente. Inaugurato imprevistamente, ricorderete, dall’avvento della distinzione fra “temperatura effettiva” e “temperatura percepita”. Invenzione che avrà una ventina d’anni sì e no – non lo so, azzardo a memoria – e che si è imposta formidabilmente, spazzando via una storia millenaria in cui avevamo caldo o freddo, e sentivamo più o meno caldo o freddo a seconda dell’umidità o del vento o della giacchetta con cui eravamo usciti. La “temperatura percepita” non aveva di scientifico se non la pretesa, e il piacere di ripeterla nelle conversazioni sul tempo che fa – a torto trattate proverbialmente come futili perché dal tempo che fa è dipesa larghissimamente la nostra storia e dipende il nostro futuro. Ma al di là della meteorologia, la questione introdotta nel nostro modo di vita, come l’assediante da un traditore dentro le mura, era la separazione fra la realtà e la percezione. Quella separazione contrassegna ora fatalmente la nostra vita sociale pressoché in ogni ambito, sta alla base della dilapidazione di conoscenza, scienza e competenza, e al cuore del “cambiamento” governativo che infatti corrisponde a una mutazione umana. La illustra soprattutto il contrasto fra la “verità effettuale” dell’immigrazione e la sua “percezione”. Dunque fra i fatti documentati sulla “sicurezza” e la “percezione” sulla sicurezza, la versione aggiornata più ingorda della stravagante differenza fra temperatura effettiva e percepita. Non sviluppo oltre l’analogia col nondimanco: si cimenti chi vuole. (Il numero di delitti è in forte calo, nondimanco la gente – “gli italiani” – si sente sempre più insicura e minacciata, eccetera).

     

L’analogia del resto non è così inappropriata, dal momento che una parte così essenziale della ricerca su Niccolò Machiavelli consiste nella sua “ricezione”, che è almeno cugina prima della percezione. Tuttavia, si dirà – nondimanco – il paragone è tutt’al più suggestivo, perché non tocca il nervo della ricerca machiavelliana, che riguarda la morale e il rapporto fra la morale e la politica. Al contrario: la “percezione”, infatti, è tutt’altro che una disposizione naturale e ingenua nei confronti dei fenomeni. La “percezione” è coltivata, fomentata, quotata in borsa. Si investe sulla “percezione” e si riscuote a tassi da usura. Dice Salvini, che oggi è il principale imprenditore e giocatore d’azzardo della “sicurezza percepita” e dei suoi corollari, l’odio, la paura, il rancore, la prepotenza, il bracconaggio – tutte cose che erano la cifra del Movimento 5 Stelle, il quale le ha srotolate sotto i piedi di Salvini – dice Salvini che “gli stranieri ci portano la guerra in casa”. Scelgo questa, fra le sue proposizioni miserabili, come la più esemplare, perché “gli stranieri” fuggono da guerre terribili, non ci hanno portato guerra, e per di più la contingenza storica e la buona sorte hanno finora esonerato l’Italia perfino dagli episodi di terrorismo islamista che hanno colpito altrove in Europa, nella gran maggioranza dei casi compiuti da cittadini europei. Scelgo questa frase anche perché vale un’omissione d’ufficio: proclamare ripetutamente e stentoreamente la palese falsità degli stranieri che “ci portano la guerra” è un reato di procurato allarme. Salvini non è stato denunciato per questo, è stato messo alla testa del ministero dell’interno. E scelgo questa frase perché nessun cittadino italiano, anche i più spaventati, anche i più insicuri, avrebbe spontaneamente “percepito” e gridato che gli stranieri ci portano la guerra in casa. Una tale percezione, del tutto svincolata dalla realtà, non è l’incrocio fra un sentimento diffuso e il suo utilizzatore, ma mera propaganda. Terrorizzante, se non volete dire terroristica. D’altra parte, quando lo sciagurato di Macerata ha sparato ai neri che ci portano la guerra in casa, i voti alla Lega sono passati dallo 0,6 per cento al 21.

   

E allora, bisognerà affidarsi solo, rigorosamente, tenacemente, alla verità dei fatti, dei dati, e smascherare la fatuità della “percezione” e dei suoi speculatori? Ma no, certo. La statistica, ai giorni nostri, pretende invano di avere la meglio sulla casistica. Non c’è un’ “invasione” di stranieri “clandestini”: ma il paese, o il quartiere, in cui gli stranieri diventano bruscamente presenti e vistosamente, perché si vieta loro di vivere il tempo; ma la graduatoria per la casa in cui si eccita una concorrenza fra chi ne ha bisogno, e così via – fanno prevalere il proprio caso concreto sulla statistica.

   

Torno a Ginzburg, scusandomi dell’abuso. Ginzburg non è certo sospettabile di cedere allo stereotipo del machiavellismo, e figuriamoci del machiavellismo “nero”: al contrario. Nondimanco, stabilito che “l’opera di Machiavelli va distinta dalla sua ricezione: su questo punto gli studiosi sono, da molto tempo, d’accordo”, Ginzburg le accompagna una riserva: “Sono tentato di fare la parte dell’avvocato del diavolo e di chiedermi: fino a che punto la netta distinzione tra la ricezione di un testo e la sua analisi ci aiuta a comprenderne meglio il significato?” La ricezione può infatti contribuire a illuminare in qualche parte il significato dell’opera. I suoi errori e pregiudizi – questo lo dico io – non le sono del tutto estranei, e l’opera non ne è sempre e del tutto immeritevole o irresponsabile. Moralistico sarebbe precludersi questo arricchimento, anche se fosse per un cavalleresco riscatto dell’“autentico” Machiavelli. Moralistico sarebbe adesso rifiutarsi di capire la relazione fra la realtà e la sua percezione, e in particolare fra il modo in cui da altri, da un altro governo, da altri partiti, da noi stessi, i fatti reali erano stati trattati e la percezione che molte persone ne hanno avuto e infine l’abuso che se ne fa con tanto successo. Torna il tema della moralità della politica e della sua autonomia: l’immoralità della politica “del cambiamento” è plateale oggi, ostentata. E’ la angosciosa chiave del suo successo. I suoi epigoni la svelano ottusamente: tolgono le coperte al clochard e se ne gloriano (poi negano, poveri). Ci sono due padroncini al governo, farsesca versione italiana di un dualismo di poteri. Uno vuole salvare la faccia coi suoi, prendendo, dopo appena due settimane di mare d’inverno, una decina di “donne e bambini”, l’altro nemmeno. Avevo scritto qui, pensando d’essere sarcastico, “Prima gli italiani, poi le donne e i bambini”: era ottimismo. I mezzi e il fine sono di nuovo in causa. Non è ancora finita, nondimanco.

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