Carlo Ginzburg

Machiavelli e Pascal, nondimanco…

Davide D'Alessandro

Carlo Ginzburg, muovendosi con abilità e maestria, cerca e ricerca, distingue, lima, confronta, dimostra come il pensatore francese si sia nutrito dei pensieri del Segretario fiorentino, restandone debitore, al pari di altri, pur essendone lontano

 

Leggere Nondimanco. Machiavelli, Pascal, edito da Adelphi, nel giorno dell’uscita, prima sottolineandolo con gli occhi, poi con la matita, infine scriverne, regala un supremo benessere psicofisico. Il merito è tutto di Carlo Ginzburg, che ci ha abituati al palato fine di libri sorprendenti, tenendo alti il nome e la missione della ricerca, «portandone alla luce i presupposti e le implicazioni», e della cultura; poiché guardando, sfogliando e leggendo, di ricerca e di cultura si tratta, con una raccolta di saggi, parzialmente riscritti, e tre inediti, oltre a un’appendice dedicata a Leggere tra le righe. Noterella su Il Gattopardo. Due anni fa, in un’intervista a Simonetta Fiori, lo storico e accademico italiano raccontò un particolare decisivo per il suo modo di procedere: «Francesco Orlando, grande studioso e mio carissimo amico, diceva, col suo indimenticabile accento palermitano, che in tutte le università italiane andrebbe messa una lastra di marmo con su scritto in lettere d'oro: "Chi non rrisica non rrosica". Nella ricerca il rischio è necessario, anche se certo non sufficiente. Ma chi non è disposto a rischiare troverà tutt'al più quello che cerca. Non è un gran risultato».

Ginzburg rrisica e rrosica, trovando molto di più. Sullo sfondo della casistica, di libri letti che continuano a leggerci, di interpretazioni antiche e nuove insieme, Machiavelli e Pascal, meglio Machiavelli virgola Pascal, chiamano in causa lettori astuti e studiosi acuti, tra testi cifrati e criptici. Lo scandaglio critico che egli opera intorno alla casistica medievale, tra chi l’ha utilizzata, Machiavelli (cogliendo dalla biblioteca del padre, come un fiore appena sbocciato, un libro di Giovanni d’Andrea, giurista medievale), e chi l’ha colpita a morte, Pascal, appare superbo. Le parole oblique che scovate nell’officina delle Provinciali, capitolo ottavo, emanano una passione sconfinata. Ah, se tutti gli studiosi accostassero le carte, i documenti, le letture, gli intrichi, la ricezione e gli echi dei classici con tanto ardore, con tanta densità stilistica!

Intanto, in attesa dell’accurata indagine, l’avviso dell’autore: «Prima di tutto, il sottotitolo: Machiavelli, Pascal. Perché la virgola?  La virgola è un segno ambiguo: può indicare una congiunzione o una disgiunzione. In questo caso, entrambe. Nondimanco comincia sostenendo che Machiavelli imparò dalla casistica medievale a riflettere sulla norma e sull’eccezione, e finisce analizzando la feroce polemica di Pascal contro la casistica. Che cosa consente di pensare insieme Machiavelli e Pascal? La risposta è: la teologia politica – una nozione che il lettore di oggi associa immediatamente a Carl Schmitt».

Per comprendere l’abilità con cui si è mosso l’autore, tra Machiavelli e Pascal, conviene citare per esteso una parte della prefazione. Ginzburg cita Pascal (Pensieri, 263): “Gli stati perirebbero se non si facessero piegare spesso le leggi alla necessità, ma la religione non ha mai ceduto a questo e non ne ha approfittato. Perciò occorrono questi adattamenti [accommodements ] oppure dei miracoli”, poi lavora sul Segretario fiorentino: «In un passo famoso (Il Principe, cap. VI) Machiavelli rese un ambiguo omaggio a Mosè (e al suo “gran precettore”) accostandolo a sovrani più o meno mitici dell’antichità profana: “Ma per venire a quelli che per propria virtù e non per fortuna sono diventati principi, dico che li più escellenti sono Moisè, Ciro, Romulo, Teseo e simili. E benché di Moisè non si debba ragionare sendo stato uno mero essecutore delle cose che erano ordinate da Dio, tamen debba essere ammirato solum per quella grazia che lo faceva degno di parlare con Dio. Ma consideriamo Ciro e li altri che hanno acquistato o fondati regni: li troverrete tutti mirabili, e, se si considerranno le azioni e ordini loro particulari, parranno non discrepanti da quelli di Moisè che ebbe sì gran precettore”. Mosè, Ciro e Teseo ritornano nella conclusione del Principe (cap. XXVI) per evocare la situazione presente dell’Italia, “più stiava che li Ebrei, più serva che e’ Persi, più dispersa che li Ateniesi”. Machiavelli ricordò i segni miracolosi che avevano accompagnato l’esodo degli ebrei dall’Egitto: “Qui si veggano estraordinarii sanza essemplo condotti da Dio: el mare s’è aperto, una nube vi ha scorto el cammino, la pietra ha versato acqua, qui è piovuto la manna”. Il riferimento implicito in questo slancio freddamente retorico era l’elezione “miracolosa” del cardinale Giovanni de’ Medici, divenuto papa Leone X. Siamo, com’è ovvio, lontanissimi da Pascal. Per lui il miracolo, quello che solo Dio può compiere – il Dio della Bibbia, non quello dei filosofi –, aveva un significato profondo, letterale ed esistenziale. Ma al tempo stesso, come si è visto nel frammento citato sopra, per Pascal il miracolo era paragonabile all’eccezione rispetto alla norma politica e morale: dunque, al “nondimanco” di Machiavelli. All’analisi della lettura di Machiavelli da parte di Pascal è dedicato il capitolo VII».

Capitolo VII che è, non a caso, il saggio centrale, uno dei tre inediti del libro. Titolo: Virtù, giustizia, forza. Su Machiavelli e alcuni suoi lettori. Capitolo dove risuona la grandezza di Machiavelli e la maestria di Ginzburg che, da artigiano sottile della parola, cerca e ricerca, distingue, lima, confronta, passa attraverso Burckhardt, J.H. Hexter, Ennio, Cicerone, Forcellini, Dante, Leo Strauss, Girolamo Cardano, Spinoza e Auerbach, riuscendo a dimostrare come Pascal, «lontano sia da Machiavelli sia da Galileo, si era nutrito dei loro pensieri; non sarebbe diventato interamente se stesso senza di loro».

La parola in questione è virtus. Scrive Ginzburg: «Machiavelli commenta: “Non si può ancora chiamare virtù amazzare li sua cittadini, tradire li amici, essere sanza fede, sanza pietà, sanza relligione, li quali modi possono fare acquistare imperio, ma non gloria: perché, se si considerassi la virtù di Agatocle nello intrare e nello uscire de’ pericoli e la grandezza dello animo suo nel sopportare e superare le cose averse, non si vede perché elli abbia a essere iudicato inferiore a qualunque escellentissimo capitano: nondimanco, la sua efferata crudelità e inumanità con infnite sceleratezze non consentono che sia in fra li escellentissimi òmini celebrato. Non si può adunque attribuire alla fortuna o alla virtù quello che sanza l’una e l’altra fu da lui conseguito”. La parola “nondimanco”, che ritorna ripetutamente nel Principe, segnala, come abbiamo detto, un elemento che è al centro dell’opera di Machiavelli: la tensione tra norme ed eccezioni, ispirata alla casistica medievale. Nel passo citato sopra, “nondimanco” sottolinea la tensione tra virtù come energia e virtù come qualità morale. Quest’ultimo significato sembra costituire la norma cui si riferisce, ostentatamente, Machiavelli – per introdurre poi l’eccezione che corrisponde alla realtà di fatto. Analogamente, in Discorsi, I, XXVI, si legge che il politico dev’essere in grado di praticare “modi crudelissimi e nimici d’ogni vivere non solamente cristiano ma umano ... nondimeno colui che non vuole pigliare quella prima via del bene, quando si voglia mantenere conviene che entri in questo male”. Non si tratta di un omaggio di maniera alla moralità convenzionale, bensì di un riconoscimento della dimensione tragica della politica».

Secondo Ginzburg, «Auerbach concluse la propria analisi sostenendo che Pascal era vicino ai teorici della ragion di stato, ma distante da chi aveva iniziato quella tradizione, ossia Machiavelli. La distanza è innegabile, ma era il risultato di una riflessione profonda, di un vero e proprio corpo a corpo con i testi». Corpo a corpo, con i testi di Machiavelli, che tanti autori, grandi e meno grandi, hanno sostenuto con alterne fortune. Come si fa, per esempio, a non ritrovare il Segretario fiorentino nell’opera principale di Tomasi di Lampedusa? Per Ginzburg, che legge straordinariamente tra le righe del Gattopardo, c’è un debito rovesciato. La famosa frase: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” altro non è che «un brano dei Discorsi di Machiavelli tratto dal capitolo “Chi vuole riformare uno stato anticato in una città libera, ritenga almeno l’ombra de’ modi antichi” (I, XXV)». Scrive Machiavelli: “Colui che desidera o che vuole riformare uno stato d’una città, a volere che sia accetto e poterlo con satisfazione di ciascuno mantenere, è necessitato a ritenere l’ombra almanco de’ modi antichi, acciò che a’ popoli non paia avere mutato ordine, ancorché in fatto gli ordini nuovi fussero al tutto alieni dai passati; perché lo universale degli uomini si pascono così di quel che pare che di quello che è: anzi molte volte si muovono più per le cose che paiono che per quelle che sono”. Spiega Ginzburg: «Non mi risulta che questa derivazione (rovesciata) da Machiavelli sia stata segnalata. Il bersaglio è stato sfiorato da Francesco Orlando, che nel respingere l’uso corrente dei termini “gattopardesco” e “gattopardismo”, derivati dalla “purtroppo famosa” frase di Tancredi, si è chiesto: “Un pregiudizio diventato lingua è definitivamente incorreggibile – da quanti secoli sarebbe vano voler purgare del loro senso deteriore machiavellismo e machiavellico?”. Un atto mancato, di pochissimo».

Non è un atto mancato Nondimanco. Anzi, è un atto centrato, una lezione di autentica bravura. Imbattersi in questo libro vuol dire afferrare il palpito dello studioso. E il palpito non si dimentica. Nondimanco, se è vero che, come diceva Lampedusa, “chiunque voglia chiamarsi un uomo e non un animale a due gambe deve aver letto i Pensieri di Pascal”, è leggendo questi libri, sui riferimenti classici intramontabili, Machiavelli e Pascal, che si può tentare di chiamarsi uomo, tenendo a debita distanza l’animale a due gambe.