La necessità di un'UE a misura di giovani imprenditori. Intervista a Riccardo Ruscalla

Matteo Scotto

In Europa sono stati fatti alcuni passi avanti, ma non basta. Serve una vera politica europea d'investimento che permetta agli Stati membri di agire in modo compatto, oltre a una capacità di rispondere in tempi ragionevoli alle grandi sfide. 

Al di là della politica, i giovani imprenditori sono quelli che giorno per giorno contribuiscono a costruire l'Europa sul campo. Tra questi c'è Riccardo Ruscalla, classe 1983 e imprenditore di terza generazione all’interno del business di famiglia. È Consigliere di Amministrazione e Direttore Operativo di Tubosider, principale società del Gruppo Ruscalla, oggi leader mondiale nella produzione di barriere stradali e altri manufatti in acciaio per il settore stradale e autostradale. Dal 2012 è co-fondatore di iStarter, un acceleratore di impresa a capitale privato operante sul mercato italiano e inglese. Socio del Club degli Investitori di Torino, entra a far parte del Movimento dei Giovani Imprenditori di Confindustria nel 2011, dove ha ricoperto la carica di Vice Presidente Regionale. Dal 2015 è membro dell’ Aspen Institute.

Riccardo Ruscalla, con la vostra iStarter, con sede a Londra, contribuite ormai da anni a far emergere il meglio dell’imprenditoria italiana e europea. Non in ultimo avete di recente portato in Cina nove tra le migliori start-up e scale-up italiane, accolte con grande entusiasmo nel lontano oriente. Qual è la forza di questi giovani imprenditori?

Le nove realtà Italiane hanno in comune un parterre di imprenditori con una visione degli affari molto internazionale che giustamente abbiamo voluto capitalizzare al massimo coinvolgendoli in incontri mirati con alcuni tra i maggiori investitori cinesi. Il tutto all’interno di un nostro evento chiamato Made in Italy 2020 nato due anni fa a Londra per far incontrare le grandi idee imprenditoriali italiane con i capitali internazionali.

Sorge spontaneo chiedersi: perché la nostra meglio gioventù degli imprenditori deve andare fino in Cina per trovare qualcuno disposto a sostenere le loro idee? Quali sono i limiti del mercato del credito all’impresa in Europa e che cosa dovrebbe fare ancora l’Unione europea per migliorare?

La Cina rappresenta oggi un mercato decisamente in fermento nel settore degli investimenti nella startup economy. La presenza di grande liquidità, un PIL in crescita costante e un mercato in grado di assorbire le migliori idee, rendono questo paese molto attraente per i nostri imprenditori. Probabilmente le maggiori limitazioni del segmento Europa riferite al finanziamento del credito d'impresa sono dovute - come sempre - alla mancanza di una vera politica europea d'investimento mirata a questo settore. Sarebbe bello avere un contesto proattivo, come negli Stati Uniti, dove l’unione degli Stati membri si unisce per far crescere l’economia anziché farsi “la guerra” a suon di “golden power” e campanilismo nazionale. Bisognerebbe inoltre rivedere la tassazione intra-comunitaria e gli incentivi fiscali che oggi portano alcuni dei nostri migliori imprenditori a lasciare l'Italia in favore di altri paesi come Germania e Portogallo, solo per citare un paio di esempi.

Com’è fare impresa in Europa? Esiste un modo di fare impresa tutto europeo e se sì, come si contraddistingue dal resto del mondo?

Possiamo dire che esiste un modo nazionale di fare impresa. Escludendo le multinazionali, se si parla di una startup o di un'azienda consolidata la sostanza non cambia. Ragioniamo ancora per micro-aree (Italia su Italia, Francia su Francia, e così via). Il vero modello europeo, per come lo intendiamo, arriverà sicuramente. Resta da vedere se questo sarà in grado di contrastare e/o crescere in un'economia globale di potenze economiche (vedi la Cina), che già oggi sono in grado di scalare molto più velocemente, anche grazie alla svalutazione controllata della loro moneta. In questo la Cina è stata lungimirante nel momento in cui, in linea con un piano di crescita quarantennale e a seconda delle necessità del mercato interno, svaluta o apprezza il tasso di cambio nei confronti del resto del mondo per migliorare l’export o gli asset interni. Lo faceva anche l’Italia, certo, ma in tempi in cui la competizione non era così globale e soprattutto con una leva non in grado di condizionare i mercati.

Le istituzioni dell’Unione europea, nella dialettica con gli Stati membri, sono in grado di stare al passo dei grandi mutamenti tecnologici, garantendo efficienza e adattabilità, o i processi di decisone politici sono sempre un passo indietro?

L’Europa non è un passo indietro in termini di delivery, ma lo è assolutamente sotto l’aspetto della capacità di agire in tempi ragionevoli: il classico time to market. Oggi ha delle priorità, tra le quali rettificare correttamente gli equilibri di debito del sistema finanziario degli Stati membri, riposizionare parte dell’attività industriale comunitaria e soprattutto affrontare in modo puntuale il tema del lavoro e dell'immigrazione, che sono strettamente correlati. Sono stati fatti buoni passi in avanti in termini generali, anche se sicuramente il gap sulle grandi sfide dei prossimi vent'anni rimane una questione da sviscerare ulteriormente. Alle porte ci sono diverse aree di intervento che porterebbero, per vicinanza geografica, ottimi sviluppi per la nostra economia comunitaria. Si pensi al grande progetto di crescita del continente africano, che oggi viene affrontato singolarmente da alcuni Stati membri dell’UE e non efficacemente a livello europeo. La necessità di agire in Africa in modo compatto è vitale per far fronte all’avanzata cinese e americana, su un terreno estremamente fertile con una prospettiva di crescita di almeno trent'anni. In questo contesto l’Italia deve mettersi nelle condizioni di essere l’attaccante di riferimento.

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