EuPorn-Il lato sexy dell'Europa

Le tante facce di Erdogan

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Il presidente turco gioca su tutti i tavoli, chiede e spesso ottiene, dai curdi al gas del Mediterraneo. Il prezzo del sì all’ingresso della Nato di Svezia e Finlandia 

Sulle pagine dell’Economist, il presidente francese, Emmanuel Macron, aveva sancito la morte cerebrale dell’Alleanza atlantica. Di profezie sbagliate e di scommesse poco oculate Macron ne ha fatte, ma non poteva prevedere che un’invasione brutale come quella di Vladimir Putin all’Ucraina avrebbe scosso la Nato. Macron era insofferente in particolare ai ricatti della Turchia, al gioco doppio, triplo e quadruplo del presidente Recep Tayyip Erdogan, abituato ad avere tutto e alzare comunque il prezzo. Sempre sulle pagine dell’Economist, a maggio Erdogan ha deciso di rispondere non soltanto a Macron, ma a tutti coloro che si domandano: ma Ankara ha senso in un’alleanza come quella atlantica? Sì, ha risposto Erdogan, e il perché è molto semplice: perché la Nato non può fare a meno di lui, che ha messo in piedi  il secondo esercito più potente  dell’Alleanza, in cui la Turchia è entrata nel 1952, dopo aver inviato truppe in Corea “in difesa della democrazia e della libertà”, ha scritto il presidente. Da allora Ankara è cambiata molto, ha investito miliardi di dollari nella sua industria della Difesa e ha inventato prodotti che oggi fanno anche la storia della resistenza in Ucraina, come i micidiali  droni Bayraktar.

 

Che si metta diritto o di traverso, Erdogan riesce a modellare le sorti dell’Alleanza e a trasformare ogni situazione a suo favore, anche quelle storiche, come l’adesione di Finlandia e Svezia alla Nato. Erdogan non aveva intenzione di far entrare i due paesi nell’Alleanza atlantica senza avere qualcosa in cambio e dopo corteggiamenti e negoziazioni ha ottenuto, a suo dire, “quello che voleva”. Finlandia e Svezia – a proposito: benvenute! – si sono impegnate a “una piena collaborazione con la Turchia nella lotta al Pkk”, il Partito dei lavoratori del Kurdistan,  “e ai movimenti a esso collegati”. Erdogan ha detto che Svezia e Finlandia adotteranno “misure concrete per l’estradizione di criminali terroristi” –  Ankara ha già chiesto l’estradizione di trentatré sospetti  –   e proibiranno “le attività di raccolta fondi e reclutamento del Pkk” e non imporranno alla Turchia restrizioni nelle esportazioni di armi. Poi c’è il non detto. Ieri al presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, anche lui a Madrid per il vertice della Nato, è stato chiesto se dopo tutto l’aiuto   dato all’occidente nella lotta al terrorismo, gli alleati non stessero svendendo i curdi a Erdogan. Draghi ha suggerito di fare questa domanda a Svezia e Finlandia.

 

Erdogan vuole un lasciapassare per fare quello che vuole in Siria, il non detto è tutto qui, e pesa sul futuro del medio oriente e degli assetti internazionali che usciranno dalla riorganizzazione del mondo dopo l’attacco di Putin contro l’Ucraina. Erdogan  pretende un posto privilegiato in questo nuovo mondo e per ottenerlo fa quello che sa fare meglio: mercanteggia. Con tutti. Siamo andate al bazar del presidente turco a scovare le sue molte facce: l’alleato, il mediatore, il neutrale, l’approfittatore, il guastafeste. 


Erdogan il mediatore.  Una delle capacità del presidente turco è di sapersi sedere a tutti i tavoli che contano. A quello dei negoziati tra Russia e Ucraina, la presenza di Erdogan  è stata addirittura invocata, perché il leader turco si affaccia sul Mar Nero, ha avuto spesso rapporti con Putin, fa parte dell’Alleanza atlantica e ha dato armi fondamentali agli ucraini. La Turchia ha cercato di rimanere neutrale, equidistante il più a lungo possibile tra le due nazioni, quindi era, e ancora è, interessata al negoziato proprio perché mediare vuol dire non schierarsi: “Siamo contrari sia all’invasione sia alle sanzioni”, ha ripetuto più volte Erdogan. La prima bozza di negoziato che Ankara aveva fatto circolare era uno strano gioco di contrappesi, tutti a favore del Cremlino, perché per far finire la guerra in fretta non c’è strada più breve da percorrere di quella di rendere le cose semplici per  l’aggressore. Con sicurezza aveva detto che la pace era a un passo, e gli ucraini avevano risposto: sono soltanto proposte, le stiamo valutando. Ma Erdogan, dicevamo, controlla il Mar Nero e ha messo un piedino fuori dalla sua comfort zone neutrale quando ha deciso di bloccare l’accesso alle navi russe: Ankara è un partner molto stretto dell’Ucraina, specie nell’industria della Difesa e queste cose, per Erdogan, contano molto.  Il presidente turco si è poi  occupato dell’altro tavolo di trattative, quello del grano, mettendosi, come sempre, in posizione cruciale. I negoziatori turchi si sono presi l’incarico di parlare con russi e ucraini per sbloccare le preziose tonnellate di grano bloccate dalla guerra di Putin che ha fatto passare il prezzo del grano da circa duecento euro a tonnellata a quattrocento. Putin per questo ha una soluzione: vendere lui il grano rubato agli ucraini. Erdogan ha proposto l’apertura di un centro di coordinamento a Istanbul per organizzare le partenze del grano. A insospettire però sui reali impegni di equidistanza di Erdogan c’è un dettaglio non piccolo: i mercantili che partono  dai porti occupati dai russi rispuntano a Karasu e a Samsun, in Turchia.

Erdogan e Putin. Erdogan e Putin hanno un’abilità: si fanno guerra ma rimanendo cordiali. Stanno sempre su fronti opposti e alla fine, in un modo o nell’altro, arrivano a spartirsi le aree di interesse: spartizioni violente, con modi cordiali. Così è successo in Siria, con Mosca dalla parte del rais siriano Bashar el Assad. Così succede anche in Libia, dove russi e turchi sono su due fronti opposti, con Erdogan dalla parte del governo di Tripoli e Putin dalla parte di Haftar. Nel Nagorno Karabakh, nel Caucaso conteso tra Armenia  e Azerbaigian, le due potenze si sono ritrovate ancora una volte su parti opposte, Mosca con gli armeni, e Ankara con gli azeri. L’ultimo conflitto, nel 2020, finì con un negoziato molto a sfavore dell’Armenia, che di fatto fu l’unica a perdere quella guerra. Gli altri, azeri, turchi e russi, si ritrovarono tutti dalla parte dei vincitori, con gli uomini di Putin impegnati come forza di peacekeeping. Se Erdogan vuole far arrabbiare l’Alleanza atlantica sa che deve mostrarsi più vicino a Mosca, come fece quando comprò i sistemi antimissile russi S-400  mentre negoziava  con Washington l’acquisto dei caccia F-35. Mettere in una stessa nazione, per di più della Nato,  un sistema antimissile russo e un aereo americano non è certo una buona idea e gli americani hanno bloccato l’acquisto e imposto sanzioni contro la Presidenza delle industrie della difesa, un’organizzazione governativa turca che gestisce l’industria bellica  del paese.  Dall’altra parte Putin sa che per dividere l’Alleanza deve puntare sul leader turco: quindi, meglio che faccia il mediatore piuttosto che si schieri totalmente con la Nato. 
 

Il rapporto con gli  Stati Uniti. Le relazioni tra Stati Uniti e Turchia hanno iniziato a essere turbolente dal 1964, quando Ismet Inonu, primo ministro turco, voleva che il presidente americano, Lyndon Johnson, aiutasse Ankara per difendere la comunità turco-cipriota da quella greco-cipriota. Johnson rispose con una lettera che suonava come un rimprovero e invitò a  non compiere alcun passo senza consultare prima Washington, la Nato o l’Onu. Ankara si sentì umiliata e Inonu pronunciò una frase che piace molto anche a Erdogan: “Verrà creato un nuovo mondo e la Turchia troverà un posto in questo nuovo mondo”. Fu una scintilla. La Turchia iniziò a volere un’industria bellica sempre più forte e autosufficiente, fino ad arrivare a oggi, che Ankara produce il 65 per cento del suo sistema bellico e per costruire una macchina della Difesa in grado di agire da sola, non comparabile con quella di oggi, ma determinata, ci mise dieci anni. Nel 1974 fece quello che Johnson le aveva detto di non fare e Washington reagì con un embargo sulle armi. L’anno successivo, la Turchia chiuse la sua base aerea meridionale a tutti i voli degli Stati Uniti. Oggi proprio dall’America di Joe Biden Erdogan vuole decine di F16: vuole modernizzare la sua flotta, e il prezzo per l’allargamento della Nato contiene anche questa pretesa.

 
Cosa vuole dall’Ue. Ormai quasi tutti lo hanno dimenticato, ma la Turchia è ancora un paese con lo status di candidato all’adesione all’Ue. La decisione fu presa al Consiglio europeo di Helsinki nel 1999, anche se Ankara dovette poi aspettare la fine del 2004 per il via libera all’inizio negoziati. All’epoca Erdogan e il suo Akp erano considerati forze trainanti delle riforme e dell’europeizzazione del paese, con un forte sostegno della classe media, dopo gli alti e bassi dovuti ai colpi di stato dei militari. Da allora otto capitoli negoziali sono stati aperti e uno solo (sulla scienza) è stato chiuso. Ma le trattative si sono bloccate diverse volte e oggi sono congelate (anche se non formalmente). Alla luce del deterioramento dello stato di diritto, il processo di adesione della Turchia è come se non ci fosse più. Anche perché le relazioni con l’Ue si sono deteriorate per le azioni unilaterali di Erdogan nel Mediterraneo orientale, le rivendicazioni territoriali contro la Grecia e le iniziative unilaterali sulla questione di Cipro. Secondo diversi osservatori, la scelta dell’Ue di snobbare la Turchia ha favorito la deriva autoritaria e nazionalistica di Erdogan. Secondo altri, è la deriva di Erdogan che ha spinto l’Ue a richiudere le sue porte. Comunque sia, Erdogan ha scelto di perseguire una politica autonoma dall’Ue, spesso antagonista, a volte anche bellicista. Nel giugno del 2020 si è quasi arrivati a uno scontro navale al largo della Libia tra la fregata francese Courbet e la fregata turca Orucreis per le ispezioni su un cargo nell’ambito della missione dell’Ue sull’embargo alle armi. Quella stessa estate la Francia ha inviato navi e caccia nel Mediterraneo centrale, mentre la Turchia conduceva operazioni di esplorazione nelle zone economiche esclusive rivendicate da Grecia e Cipro. C’è sempre una componente di politica interna nell’aggressività territoriale e marittima di Erdogan con Atene e Nicosia. All’elettorato nazionalista piace quando il presidente turco mostra i muscoli, come sta accadendo di nuovo in questi giorni con la minaccia di attaccare le isole greche vicine alla sua costa se non saranno smilitarizzate, e il rifiuto di incontrare il premier di Atene, Kyriakos Mitsotakis, al vertice della Nato. Ma ciò che interessa di più Erdogan è il gas del Mediterraneo orientale. Chi si accaparra quelle risorse può diventare una minipotenza regionale energetica. Le esplorazioni servono a imporre il fatto compiuto in vista di potenziali negoziati con gli altri attori per spartirsi la torta del gas.

 

Maestro di utilitarismo.  L’approccio al Mediterraneo orientale è uno dei tanti indizi sul fatto che, dietro le prepotenze, Erdogan nasconda un approccio utilitaristico nelle sue relazioni con l’Ue. L’esempio più eclatante è stato la crisi dei rifugiati del 2015-16, che si concluse con un patto tra Angela Merkel e lo stesso Erdogan per frenare il flusso di oltre 1,5 milioni di migranti che erano entrati in Europa dalle coste turche. Con la dichiarazione Ue-Turchia, Erdogan si è impegnato a chiudere la rotta verso le isole della Grecia e a riprendersi una parte dei richiedenti asilo, in cambio di un pacchetto di aiuti che è arrivato a 6 miliardi di euro. Negli anni successivi, ogni volta che la Commissione ha ritardato un pagamento o si apriva un conflitto su un altro tema, Erdogan ha usato i migranti come arma di ricatto. Il più delle volte, permettendo loro di partire via mare. All’inizio del 2020, organizzando perfino degli autobus per farli arrivare alla frontiera terrestre della Grecia e della Bulgaria. Tuttavia i soldi non sono tutto per Erdogan. Al contrario. La dichiarazione Ue-Turchia sui migranti del 2016 prevedeva altri impegni che, alla fine, gli europei non hanno del tutto rispettato: la ripartenza dei negoziati di adesione, la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi e la modernizzazione dell’Unione doganale. In fondo sono i temi a cui la classe media turca, che ha iniziato a ribellarsi sempre più a Erdogan nelle urne, tiene di più.
 

 

I conflitti del 2020 sui migranti e sul Mediterraneo orientale erano stati stemperati dall’Ue, quando ha offerto a Erdogan una “agenda positiva” che prevedeva, oltre a nuovi finanziamenti per i rifugiati siriani, anche passi avanti sui visti e l’unione doganale. Meglio ancora se queste offerte avvengono nel quadro di incontri al vertice, con troni (per Angela Merkel), poltrone (per Charles Michel, ma non Ursula von der Leyen) e foto di famiglia (con il maggior numero possibile di leader europei a circondarlo). Quel che vuole Erdogan dall’Ue è anche il riconoscimento della Turchia dello status di potenza regionale. E il riconoscimento personale: sarò anche un sultano capriccioso, ma senza di me voi europei non sapete stare.

(ha collaborato David Carretta)